Stand by me (again)
When the night has come, and the land is dark And the moon is the only light we will see No, I won't be afraid, oh, I won't be afraid Just as long as you stand, stand by ...
Sulle rotte dell'Africa
Metti una sera con Anna Maria Gentili, storica dell'Africa, docente di storia e istituzioni dei paesi afroasiatici alla Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Bologna, mia docente di tesi nel lontano 1991, e con Ungulani Ba Ka Khosa, scrittore che avevo segnalato sull'Uovo già qualche mese fa senza immaginare che avremmo cenato assieme ai Bindesi.
Una sera, insomma, di quelle che ti riconciliano con il mondo, sia per l'intelligenza delle cose sentite nella conferenza tenuta dalla Gentili alla Civica di Trento sia, insomma, perché a volte hai bisogno di risintonizzarti con il tuo io profondo. Ecco, ieri sera, per me, è stata una di quelle sere.
Se so qualcosa dell'Africa lo devo non a qualche viaggio che ho fatto o a qualche documentario girato ma alla Gentili. Nel 1986, quando ho cominciato a frequentare i suoi corsi a Bologna, conoscevo quasi nulla; all'epoca il tema "caldo" per uno studente impegnato politicamente (diciamo così) era la lotta all'apartheid in Sud Africa, e questo era tutto. L'Africa, per il resto, rimaneva un mistero.
Anna Maria Gentili, che aveva iniziato la sua attività di ricercatrice in paesi come la Tanzania o il Mozambico (paesi di socialismo africano, dunque) ci aiutava a fare chiarezza su tante cose. Da un lato, insegnandoci che l'Africa aveva una storia, che tutto andava visto in una prospettiva storica: la tratta degli schiavi, la colonizzazione, le crisi economiche internazionali, come quella del '29, i meccanismi della dipendenza sviluppatisi all'indomani della decolonizazione, la crisi del debito. Dall'altro, facendo piazza pulita su tanti luoghi comuni e pressapochismi (come quello che vuole l'Africa una vittima sacrificale delle multinazionali: "Quanta percentuale degli investimenti mondiali pensate attiri l'Africa oggi?", ci chiedeva).
Ieri a Trento, per una delle iniziative preparatorie alla settimana dei missionari "Sulle rotte del mondo", non è stata da meno. L'Africa di cui ci ha parlato è un'Africa che da un lato sviluppa esperienze di democratizzazione interessanti (il Ghana, ad esempio, non a caso il paese è il primo ad essere stato visitato dal neopresidente americano Obama); dall'altro però mostra anche situazioni di democrazia "bloccata" (lo stesso partito che continua ad essere rieletto ad ogni elezione: è il caso, inutile negarlo, dello stesso Mozambico, che pure è un paese ormai da tempo pacificato, anche grazie alla mediazione italiana) e in generale di calo della partecipazione dei cittadini alla vita politica e alle elezioni. "Ma la democrazia in Africa è cosa nuova - ha aggiunto - quindi io sono ottimista."
In quanto alle prospettive di sviluppo, gli indicatori com'è noto continuano a collocare i paesi dell'Africa subsahariana in testa alle classifiche sulla povertà; un dato, questo, che non può certo essere smentito, anche se di tanto in tanto qualche rivista ama parlare di "miracolo africano", tanto per dire qualcosa di originale. In parte ciò è dovuto alle condizioni ereditate dall'Africa al momento delle indipendenze (gravissime carenze infrastrutturali, bassi livelli di scolarizzazione ecc.) ma in parte pesano le scelte sbagliate fatte in seguito e ora gli effetti della crisi economica mondiale. Inolte l'Africa continua ad essere dipendente dall'esterno, ad esempio dall'esportazione di materie prime o di generi "coloniali", esposti alle fluttuazioni dei mercati. Riguardo alle critiche mosse da più parti agli aiuti internazionali (ad esempio dalla zambiana Dambisa Moyo, per la quale essi servono solo a consolidare le oligarchiea al potere), Anna Maria Gentili la pensa diversamente: "Non è vero che sono stati dati troppi aiuti, semmai troppo pochi. Certo, dipende da come gli aiuti vengono utilizzati. Ma trovo un po' 'pelose' queste critiche che stanno andando molto di moda. Io sono una storica, vado alle fonti: la Moyo dove lavora? Alla Banca mondiale."
Infine, una lancia spezzata in favore dell'Africa rurale, dei contadini che, anche se poveri, "non sono affatto indifferenti a questioni come quelle della democratizzazione e potrebbero giocare un ruolo importante nello sfamare le popolazioni dell'Africa se venissero adeguatamente supportati. Ma spesso, da questo orecchio, gli stessi organismi internazionali - come appunto la Banca mondiale - non ci sentono proprio."
Questo in brevissima sintesi, ovviamente. Poi devo dire che io mi sono goduto anche la cena, per quanto lei e Ungulani parlassero perlopiù in portoghese. Mi sono goduto battute del tipo: "La fine dell'aparhteid non ha liberato i neri, ha liberato i sudafricani bianchi, che ora si stanno comprando mezzo Mozambico per farci i loro resort turistici!". Ma anche osservazioni buttate lì che mi hanno riportato al tema della mia tesi di laurea: "Abbiamo fatto una nuova legge sul'emigrazione clandestina in Italia per coltivare l'illegalità, non per combatterla. La nuova legge ci mette a disposizione un esercito di lavoratori clandestini e di badanti clandestine, un esercito ricattabile, totalmente senza diritti, costretto a lavorare per compensi bassissimi." E' quello che successe nel Sud Africa dell'apartheid, pari pari. Ed era già tutto nella Bossi-Fini, solo a volerlo vedere.
Ungulani sarà lunedì 23 ancora alla Civica di Trento, in via Roma, per presentare i suoi libri. Io conosco "Ualalapi", un romanzo breve che racconta le gesta dell'ultimo re-guerriero del Mozambico, Ngungunhane (sconfitto dai portoghesi e morto in esilio alle Azzorre): è un libro straordinario, un libro pieno di fantasmi, di sangue, di sperma, e si chiude con un monologo davvero shakespeariano. Pensavo che lo scrittore riflettesse questa materia (che ingenuità), mentre non è così: ho trovato una persona disponibile e spiritosa, per niente "sinistra", uno storico pieno di sense of humor , di passione per il suo lavoro e il suo paese (qui sotto, il bassorilievo che illustra la cattura di Ngungunhane, a Maputo).
Gli eventi della settimana dei missionari (compresa la conferenza della Gentili) sono o saranno visibili qui: www.missionetrentino.it
Una sera, insomma, di quelle che ti riconciliano con il mondo, sia per l'intelligenza delle cose sentite nella conferenza tenuta dalla Gentili alla Civica di Trento sia, insomma, perché a volte hai bisogno di risintonizzarti con il tuo io profondo. Ecco, ieri sera, per me, è stata una di quelle sere.
Se so qualcosa dell'Africa lo devo non a qualche viaggio che ho fatto o a qualche documentario girato ma alla Gentili. Nel 1986, quando ho cominciato a frequentare i suoi corsi a Bologna, conoscevo quasi nulla; all'epoca il tema "caldo" per uno studente impegnato politicamente (diciamo così) era la lotta all'apartheid in Sud Africa, e questo era tutto. L'Africa, per il resto, rimaneva un mistero.
Anna Maria Gentili, che aveva iniziato la sua attività di ricercatrice in paesi come la Tanzania o il Mozambico (paesi di socialismo africano, dunque) ci aiutava a fare chiarezza su tante cose. Da un lato, insegnandoci che l'Africa aveva una storia, che tutto andava visto in una prospettiva storica: la tratta degli schiavi, la colonizzazione, le crisi economiche internazionali, come quella del '29, i meccanismi della dipendenza sviluppatisi all'indomani della decolonizazione, la crisi del debito. Dall'altro, facendo piazza pulita su tanti luoghi comuni e pressapochismi (come quello che vuole l'Africa una vittima sacrificale delle multinazionali: "Quanta percentuale degli investimenti mondiali pensate attiri l'Africa oggi?", ci chiedeva).
Ieri a Trento, per una delle iniziative preparatorie alla settimana dei missionari "Sulle rotte del mondo", non è stata da meno. L'Africa di cui ci ha parlato è un'Africa che da un lato sviluppa esperienze di democratizzazione interessanti (il Ghana, ad esempio, non a caso il paese è il primo ad essere stato visitato dal neopresidente americano Obama); dall'altro però mostra anche situazioni di democrazia "bloccata" (lo stesso partito che continua ad essere rieletto ad ogni elezione: è il caso, inutile negarlo, dello stesso Mozambico, che pure è un paese ormai da tempo pacificato, anche grazie alla mediazione italiana) e in generale di calo della partecipazione dei cittadini alla vita politica e alle elezioni. "Ma la democrazia in Africa è cosa nuova - ha aggiunto - quindi io sono ottimista."
In quanto alle prospettive di sviluppo, gli indicatori com'è noto continuano a collocare i paesi dell'Africa subsahariana in testa alle classifiche sulla povertà; un dato, questo, che non può certo essere smentito, anche se di tanto in tanto qualche rivista ama parlare di "miracolo africano", tanto per dire qualcosa di originale. In parte ciò è dovuto alle condizioni ereditate dall'Africa al momento delle indipendenze (gravissime carenze infrastrutturali, bassi livelli di scolarizzazione ecc.) ma in parte pesano le scelte sbagliate fatte in seguito e ora gli effetti della crisi economica mondiale. Inolte l'Africa continua ad essere dipendente dall'esterno, ad esempio dall'esportazione di materie prime o di generi "coloniali", esposti alle fluttuazioni dei mercati. Riguardo alle critiche mosse da più parti agli aiuti internazionali (ad esempio dalla zambiana Dambisa Moyo, per la quale essi servono solo a consolidare le oligarchiea al potere), Anna Maria Gentili la pensa diversamente: "Non è vero che sono stati dati troppi aiuti, semmai troppo pochi. Certo, dipende da come gli aiuti vengono utilizzati. Ma trovo un po' 'pelose' queste critiche che stanno andando molto di moda. Io sono una storica, vado alle fonti: la Moyo dove lavora? Alla Banca mondiale."
Infine, una lancia spezzata in favore dell'Africa rurale, dei contadini che, anche se poveri, "non sono affatto indifferenti a questioni come quelle della democratizzazione e potrebbero giocare un ruolo importante nello sfamare le popolazioni dell'Africa se venissero adeguatamente supportati. Ma spesso, da questo orecchio, gli stessi organismi internazionali - come appunto la Banca mondiale - non ci sentono proprio."
Questo in brevissima sintesi, ovviamente. Poi devo dire che io mi sono goduto anche la cena, per quanto lei e Ungulani parlassero perlopiù in portoghese. Mi sono goduto battute del tipo: "La fine dell'aparhteid non ha liberato i neri, ha liberato i sudafricani bianchi, che ora si stanno comprando mezzo Mozambico per farci i loro resort turistici!". Ma anche osservazioni buttate lì che mi hanno riportato al tema della mia tesi di laurea: "Abbiamo fatto una nuova legge sul'emigrazione clandestina in Italia per coltivare l'illegalità, non per combatterla. La nuova legge ci mette a disposizione un esercito di lavoratori clandestini e di badanti clandestine, un esercito ricattabile, totalmente senza diritti, costretto a lavorare per compensi bassissimi." E' quello che successe nel Sud Africa dell'apartheid, pari pari. Ed era già tutto nella Bossi-Fini, solo a volerlo vedere.
Ungulani sarà lunedì 23 ancora alla Civica di Trento, in via Roma, per presentare i suoi libri. Io conosco "Ualalapi", un romanzo breve che racconta le gesta dell'ultimo re-guerriero del Mozambico, Ngungunhane (sconfitto dai portoghesi e morto in esilio alle Azzorre): è un libro straordinario, un libro pieno di fantasmi, di sangue, di sperma, e si chiude con un monologo davvero shakespeariano. Pensavo che lo scrittore riflettesse questa materia (che ingenuità), mentre non è così: ho trovato una persona disponibile e spiritosa, per niente "sinistra", uno storico pieno di sense of humor , di passione per il suo lavoro e il suo paese (qui sotto, il bassorilievo che illustra la cattura di Ngungunhane, a Maputo).
Gli eventi della settimana dei missionari (compresa la conferenza della Gentili) sono o saranno visibili qui: www.missionetrentino.it
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Natural blues
C'è chi dice che abbia saccheggiato impunemente di archivi di Lomax (registrazioni di classici del blues eseguiti da uomini e donne della strada...o del Delta). Ciò non toglie che un paio di dischi buoni Moby li abbia azzeccati. E comunque, io sono favorevole ad ogni esperimento volto a svecchiare il blues (e a tenerlo in vita).
Enjoy electric mayonaise
Maionese elettrica.
uno ha scritto: una grande canzone ha il potere di farti sentire felice e triste nello stesso tempo).
Sulle rotte del mondo
L'Africa è in arrivo in Trentino, attraverso un'iniziativa che coinvolge innanzitutto i missionari ("Sulle rotte del mondo"), che si terrà dal 28 settembre al 3 ottobre.
Ci saranno anche ospiti esterni, fra cui Aminata Traoré, Jean Leonard Touadi, uno straordinario scrittore mozambicano che si chiama Ungulani Ba Ka Khosa (di cui ho già parlato qui, senza sapere che l'avrei incontrato in carne ed ossa), e persino Anna Maria Gentili, mia docente di tesi nell'ormai lontano 1991 (storica dell'Africa, docente alla facoltà di Scienze politiche di Bologna, iniziò la carriera a Maputo con Ruth First, giornalista e ricercatrice sudafricana, marxista, di cui si racconta nel film "Un mondo a parte"). Ci sarà anche un Nobel per la pace, l'argentino Perez Esquivel. E poi padre Albanese, Elio Sommavilla e molti altri.
Speriamo sia l'occasione per parlare di Africa in maniera un po' approfondita e lontano dagli stereotipi. Un po' come ha fatto Obama in Ghana qualche settimana fa.
La foto di cui sopra, invece, può sembrare un po' stereotipata ma è bella, perché ci vedo la forza di un continente non completamente addomesticato, nonostante tutto. L'ho scattata in Mozambico, a Caia, l'anno scorso.
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Divise
Ci sarebbero due temi di cui occuparsi, oggi, uno locale e l'altro globale. Entrambi hanno a che fare con le divise.
Quello locale è ovviamente l'Afghanistan, il senso della presenza militare, le prospettive per questo paese con o senza truppe straniere.
Quello locale riguarda la grande sfilata degli Schuetzen (le compagnie dei territori dell'ex-Tirolo storico, oggi Euroregione transfrontaliera del Trentino, Alto Adige e Tirol) che si terrà oggi ad Innsbruck.
Sull'Afghanistan ho già detto infilandomi nelle discussioni aperte in altri blog, ad esempio quello di Leonardo. Quindi mi pare giusto dire qualcosa anche qui.
Partiamo da una tesi che penso sia condivisa da molti: la democrazia, la legalità, i diritti civili, la parità fra i sessi ecc. non sono cose che si raggiungono dall'oggi al domani, né sono cose che si esportano sulla canna dei fucili. Vale per esse lo stesso discorso che si fa per lo sviluppo socio-economico, qualunque cosa voglia dire questa parola abusata, "sviluppo": non lo si esporta con la conquista e la sottomissione, qualunque cosa dicano i nostalgici del colonialismo, gli italiani NON furono brava gente e NON portarono la civiltà (quale?) in Etiopia, Somalia o Libia.
Tenuto questo come punto fermo, e prendendo quindi le distanze anche dalle tesi neocon andate di moda negli ultimi 10 anni (tesi a cui perlopiù non credevano gli stessi neoconservatori, probabilmente: diciamo che vennero inventate per giustificare la sete di potere di alcuni di essi e il buon proseguimento degli affari della cricca di Bush jr.), è eticamente corretto e politicamente desiderabile il ritiro delle truppe straniere dall'Afghanistan, come chiede oggi la Lega e parte del mondo della sinistra (Verdi, PRC, pacifisti, ecc.?)
Io penso di no. Penso che negli scenari di crisi si debba restare. Non solo con i soldati. Non solo con la presenza militare che non è per nulla risolutiva (e comunque, come è noto, perché è stato scritto in tutte le salse da Kipling in poi, tra quelle montagne nessun esercito straniero l'ha mai spuntata). Però restare.
Sappiamo che ogni intervento armato in casa d'altri è aleatorio e di dubbia legittimità, anche quando "rivestito" dalle migliori intenzioni. A Gaza o in Tibet ben difficilmente avremo mai i Caschi Blu o la Nato, e già questo crea uno doppiopesismo sospetto.
Ciò non basta però a convincermi del fatto che (per usare un argomento caro ad esempio a leonardo): noi siamo piccoli, un piccolo paese pieno di problemi, perché dovremmo avere la presunzione di andare a risolvere quelli degli altri ecc.
A parte ogni ovvia considerazione sulla differenza fra la seconda guerra in Iraq (fondata su delle bugie e totalmente priva di una gustificazione sul piano del diritto internazionale, a differenza della prima) e la missione in Afghanistan, nata in risposta ad un attacco (e che attacco!) partito da quel paese, ciò che conta è che oggi il mondo è uno. E se è così, non posso non sentirmi responsabile - qui, dal mio piccolo, nevrotico paradiso alpino - di ciò che accade altrove, non posso non sentirmi umanamente vicino a chi soffre e muore in Afghanistan piuttosto che in Congo, in Somalia o nel Caucaso.
Si dirà: il solito superomismo occidentale. Appunto, nessun superomismo. Non so quali siano le cose giuste da fare, credo nessuno abbia la bacchetta magica, ho molte resistenze persino riguardo a che cosa "aiutare a far crescere" in Afghanistan (preferisco questa espressione rispetto ad "esportare"), anche se penso che i diritti umani come individuati dall'Onu alla fine della Seconda guerrra mondiale siano qualcosa.
Quello che so è che anche un pacifista al di sopra di ogni sospetto come Alex Langer, chiese l'intervento armato per rompere l'assedio di Sarajevo, durante le guerre jugoslave. Lo fece usando tutte le prudenze che il linguaggio gli metteva a disposizione, chiese "bombardamenti chirurgici", ovvero non indiscriminati e non sui civili (se avesse potuto avrebbe chiesto di bombardare solo i cannoni e lasciare in vita i cannonieri, probabilmente) ma tant'è, li chiese. Oggi anche quell'illusione è caduta. Sappiamo che per quanto precisi posssano essere i missili intelligenti stragi di innocenti ne possono sempre fare, specie in una guerra dove il nemico si mescola alla popolazione civile (e la tiene in ostaggio). Sappiamo anche che i soldati, la fanteria, i vecchi fantaccini, ci vogliono e ci vorranno sempre, e che queste divise correranno dei rischi mortali, come si è visto qualche giorno fa a Kabul (ma non chiamiamoli martiri, per favore, non scomodiamo la religione ad ogni piè sospinto per mascherare la nostra povertà di linguaggio e la nostra carenza di argomenti "forti").
Tuttavia, insomma, io credo che così come a Sarajevo o a Srebrenica ci fosse gente che doveva essere protetta (e nessuno lo fece, perlomeno fin quando non si mossero gli americani), così c'è oggi gente in Afghanistan che deve essere protetta dai talebani ed aiutata a costruire una democrazia un po' meno imperfetta di quella attuale anche se non necessariamente uguale alla nostra (anzi, spero per gli afghani possa essere migliore della nostra).
Questo è un compito che non spetta solo ai miliari: spetta a tutti. Spetta alla diplomazia, spetta all'economia, spetta al volontariato, spetta alla cooperazione allo sviluppo, spetta alle chiese, spetta alle università ecc. Ma se il mondo non si assume compiti come questo, dopotutto, che ci sta a fare?
La questione Schuetzen è di tutt'altra pasta. Personalmente ritengo che questi "cappelli piumati", la cui unica battaglia combattuta negli ultimi 50 anni è stata quella per ottenere (in Alto Adige) di poter sfilare con i loro fuciletti caricati a salve, siano un residuo del passato. Nel campo del volontariato - un campo particolarmente fertile in queste province - non rappresentano nulla; nulla di paragonabile ai vigili del fuoco volontari, ad esempio, o alle centinaia di associazioni che operano nei paesi in via di sviluppo. In più, gli Schuetzen tirolesi sono oggi gli alfieri del micronazionalismo pantirolese, palesemente ostili nei confronti della popolazione di lingua italiana e di ciò che essa incarna (un Alto Adige/Suedtirol multietnico e plurilingue). Detto questo, la manifestazione di oggi non è una semplice sfilata degli Schuetzen in ricordo dell'insurrezione di Andreas Hofer contro i franco-bavaresi. Per almeno due dei tre soggetti istituzionali coinvolti (i governi del Trentino e del Tirolo austriaco) essa dovrebbe testimoniare la volontà di lavorare assieme, nell'ambito dell'Euregio (organismo che raggruppa i tre territori, con sede comune a Bruxelles) su temi niente affatto nostalgici, anzi, attualissimi: il corridoio ferroviario del Brennero, ad esempio, o l'energia, o la cooperazione interuniversitaria. C'è insomma un modo vetusto, conservatore, "heideriano", di guardare al Tirolo, questa entità storica sconfitta dalla storia con la nascita del confine al Brennero; e c'è un modo innovativo, reso possibile dal superamento dei confini nazionali, che da un lato recupera sì, giocoforza, i tratti identitari del passato - innegabilmente la manifestazione di oggi fa perno sulla controversa figura di Hofer - ma che di fatto punta piuttosto a delineare inedite prospettive di collaborazione fra genti unite da un fatto altrettanto innegabile: il fatto di vivere in montagna. E la montagna ha interessi, equilibri, funzioni e aspettative diverse rispetto a quelle proprie delle grandi pianure (al nord quella bavarese, al sud quella padana), diverse rispetto alle grandi conurbazioni con le loro economie di scala.
Se Dellai e Platter riusciranno a dare un taglio del genere al progetto euroregionale non so: ma certamente, se ci riuscissero, sarebbe un bel passo avanti rispetto alle divise, ai cappelli piumati e alle corone di spine pantirolesi.
Quello locale è ovviamente l'Afghanistan, il senso della presenza militare, le prospettive per questo paese con o senza truppe straniere.
Quello locale riguarda la grande sfilata degli Schuetzen (le compagnie dei territori dell'ex-Tirolo storico, oggi Euroregione transfrontaliera del Trentino, Alto Adige e Tirol) che si terrà oggi ad Innsbruck.
Sull'Afghanistan ho già detto infilandomi nelle discussioni aperte in altri blog, ad esempio quello di Leonardo. Quindi mi pare giusto dire qualcosa anche qui.
Partiamo da una tesi che penso sia condivisa da molti: la democrazia, la legalità, i diritti civili, la parità fra i sessi ecc. non sono cose che si raggiungono dall'oggi al domani, né sono cose che si esportano sulla canna dei fucili. Vale per esse lo stesso discorso che si fa per lo sviluppo socio-economico, qualunque cosa voglia dire questa parola abusata, "sviluppo": non lo si esporta con la conquista e la sottomissione, qualunque cosa dicano i nostalgici del colonialismo, gli italiani NON furono brava gente e NON portarono la civiltà (quale?) in Etiopia, Somalia o Libia.
Tenuto questo come punto fermo, e prendendo quindi le distanze anche dalle tesi neocon andate di moda negli ultimi 10 anni (tesi a cui perlopiù non credevano gli stessi neoconservatori, probabilmente: diciamo che vennero inventate per giustificare la sete di potere di alcuni di essi e il buon proseguimento degli affari della cricca di Bush jr.), è eticamente corretto e politicamente desiderabile il ritiro delle truppe straniere dall'Afghanistan, come chiede oggi la Lega e parte del mondo della sinistra (Verdi, PRC, pacifisti, ecc.?)
Io penso di no. Penso che negli scenari di crisi si debba restare. Non solo con i soldati. Non solo con la presenza militare che non è per nulla risolutiva (e comunque, come è noto, perché è stato scritto in tutte le salse da Kipling in poi, tra quelle montagne nessun esercito straniero l'ha mai spuntata). Però restare.
Sappiamo che ogni intervento armato in casa d'altri è aleatorio e di dubbia legittimità, anche quando "rivestito" dalle migliori intenzioni. A Gaza o in Tibet ben difficilmente avremo mai i Caschi Blu o la Nato, e già questo crea uno doppiopesismo sospetto.
Ciò non basta però a convincermi del fatto che (per usare un argomento caro ad esempio a leonardo): noi siamo piccoli, un piccolo paese pieno di problemi, perché dovremmo avere la presunzione di andare a risolvere quelli degli altri ecc.
A parte ogni ovvia considerazione sulla differenza fra la seconda guerra in Iraq (fondata su delle bugie e totalmente priva di una gustificazione sul piano del diritto internazionale, a differenza della prima) e la missione in Afghanistan, nata in risposta ad un attacco (e che attacco!) partito da quel paese, ciò che conta è che oggi il mondo è uno. E se è così, non posso non sentirmi responsabile - qui, dal mio piccolo, nevrotico paradiso alpino - di ciò che accade altrove, non posso non sentirmi umanamente vicino a chi soffre e muore in Afghanistan piuttosto che in Congo, in Somalia o nel Caucaso.
Si dirà: il solito superomismo occidentale. Appunto, nessun superomismo. Non so quali siano le cose giuste da fare, credo nessuno abbia la bacchetta magica, ho molte resistenze persino riguardo a che cosa "aiutare a far crescere" in Afghanistan (preferisco questa espressione rispetto ad "esportare"), anche se penso che i diritti umani come individuati dall'Onu alla fine della Seconda guerrra mondiale siano qualcosa.
Quello che so è che anche un pacifista al di sopra di ogni sospetto come Alex Langer, chiese l'intervento armato per rompere l'assedio di Sarajevo, durante le guerre jugoslave. Lo fece usando tutte le prudenze che il linguaggio gli metteva a disposizione, chiese "bombardamenti chirurgici", ovvero non indiscriminati e non sui civili (se avesse potuto avrebbe chiesto di bombardare solo i cannoni e lasciare in vita i cannonieri, probabilmente) ma tant'è, li chiese. Oggi anche quell'illusione è caduta. Sappiamo che per quanto precisi posssano essere i missili intelligenti stragi di innocenti ne possono sempre fare, specie in una guerra dove il nemico si mescola alla popolazione civile (e la tiene in ostaggio). Sappiamo anche che i soldati, la fanteria, i vecchi fantaccini, ci vogliono e ci vorranno sempre, e che queste divise correranno dei rischi mortali, come si è visto qualche giorno fa a Kabul (ma non chiamiamoli martiri, per favore, non scomodiamo la religione ad ogni piè sospinto per mascherare la nostra povertà di linguaggio e la nostra carenza di argomenti "forti").
Tuttavia, insomma, io credo che così come a Sarajevo o a Srebrenica ci fosse gente che doveva essere protetta (e nessuno lo fece, perlomeno fin quando non si mossero gli americani), così c'è oggi gente in Afghanistan che deve essere protetta dai talebani ed aiutata a costruire una democrazia un po' meno imperfetta di quella attuale anche se non necessariamente uguale alla nostra (anzi, spero per gli afghani possa essere migliore della nostra).
Questo è un compito che non spetta solo ai miliari: spetta a tutti. Spetta alla diplomazia, spetta all'economia, spetta al volontariato, spetta alla cooperazione allo sviluppo, spetta alle chiese, spetta alle università ecc. Ma se il mondo non si assume compiti come questo, dopotutto, che ci sta a fare?
La questione Schuetzen è di tutt'altra pasta. Personalmente ritengo che questi "cappelli piumati", la cui unica battaglia combattuta negli ultimi 50 anni è stata quella per ottenere (in Alto Adige) di poter sfilare con i loro fuciletti caricati a salve, siano un residuo del passato. Nel campo del volontariato - un campo particolarmente fertile in queste province - non rappresentano nulla; nulla di paragonabile ai vigili del fuoco volontari, ad esempio, o alle centinaia di associazioni che operano nei paesi in via di sviluppo. In più, gli Schuetzen tirolesi sono oggi gli alfieri del micronazionalismo pantirolese, palesemente ostili nei confronti della popolazione di lingua italiana e di ciò che essa incarna (un Alto Adige/Suedtirol multietnico e plurilingue). Detto questo, la manifestazione di oggi non è una semplice sfilata degli Schuetzen in ricordo dell'insurrezione di Andreas Hofer contro i franco-bavaresi. Per almeno due dei tre soggetti istituzionali coinvolti (i governi del Trentino e del Tirolo austriaco) essa dovrebbe testimoniare la volontà di lavorare assieme, nell'ambito dell'Euregio (organismo che raggruppa i tre territori, con sede comune a Bruxelles) su temi niente affatto nostalgici, anzi, attualissimi: il corridoio ferroviario del Brennero, ad esempio, o l'energia, o la cooperazione interuniversitaria. C'è insomma un modo vetusto, conservatore, "heideriano", di guardare al Tirolo, questa entità storica sconfitta dalla storia con la nascita del confine al Brennero; e c'è un modo innovativo, reso possibile dal superamento dei confini nazionali, che da un lato recupera sì, giocoforza, i tratti identitari del passato - innegabilmente la manifestazione di oggi fa perno sulla controversa figura di Hofer - ma che di fatto punta piuttosto a delineare inedite prospettive di collaborazione fra genti unite da un fatto altrettanto innegabile: il fatto di vivere in montagna. E la montagna ha interessi, equilibri, funzioni e aspettative diverse rispetto a quelle proprie delle grandi pianure (al nord quella bavarese, al sud quella padana), diverse rispetto alle grandi conurbazioni con le loro economie di scala.
Se Dellai e Platter riusciranno a dare un taglio del genere al progetto euroregionale non so: ma certamente, se ci riuscissero, sarebbe un bel passo avanti rispetto alle divise, ai cappelli piumati e alle corone di spine pantirolesi.
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Come quando ti scateni
La canzone è "Modern love", di David Bowie, dall'album "Let's dance".
Il film in Italia uscì con il titolo "Rosso sangue".
Una sorta di noir lirico estetizzante, non ben sviluppato, a mio parere, che ruotava attorno ad un'idea niente male: un virus che colpisce tutte le persone che fanno l'amore senza amore (siamo negli anni '80, l'Aids è ancora una novità).
Don't believe in modern love, canta Bowie.
Come quando senti che devi uscire, che devi correre, che qualcosa ti tira da qualche parte, e ti trascina, nonostante le catene, nonostante il male che ti paralizza i muscoli, come quando vuoi attraversare le strade della città come un vento, come quando vuoi distruggere le insegne, come quando fai le capriole, come guando devi essere sfrenato, senza motivo, come quando vorresti lasciarti tutto alle spalle e infilarti nel cuore di una metropoli del sogno, vuota, pallida, opalescente, insonne e piena di mistero...
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Bravi ragazzi.
Avevo postato qualcosa martedì sulla passerella berlusconiana della consegna delle case di Onna, costruite dalla Provincia autonoma di Trento (assieme alla Croce Rossa). Poi ho perso il tutto e ormai la notizia è andata. Qualcuno, comunque (da D'Alema a Casini) HA RICORDATO la verità, anche ieri sera a Ballarò.
In ogni caso, le parole migliori le ha pronunciate Dellai: "Le case non sono né dei trentini né di Berlusconi, sono degli abruzzesi che le abiteranno."
Dopodiché, certo, che il Trentino sia sparito dal TG1 e anche in sostanza da "Porta a Porta" (a parte un architetto che ha detto 2 parole) fa pensare. Sarà un caso, ma il Trentino è l'unica provincia del Nord (assieme all'Alto Adige, che però è un'altra storia) governata dal centrosinistra (questo qualcuno dovrebbe ricordarlo ad esempio a Fede, che ha avuto la spudoratezza di dire: "Se ci fosse stato Prodi, al Governo, pensate che le avrebbe costruite, le case?").
Ho filmato e intervistato i volontari della Protezione civile trentina quando sono partiti alla volta dell'Abruzzo, poche ore dopo il terremoto. Erano le 11 del mattino del 6 aprile e già la prima colonna mobile si muoveva.
Eccoli qui (li avevo già postati, mi pare).
Io che sono tutto fuorché un uomo pratico, non posso che dire "bravi".
In ogni caso, le parole migliori le ha pronunciate Dellai: "Le case non sono né dei trentini né di Berlusconi, sono degli abruzzesi che le abiteranno."
Dopodiché, certo, che il Trentino sia sparito dal TG1 e anche in sostanza da "Porta a Porta" (a parte un architetto che ha detto 2 parole) fa pensare. Sarà un caso, ma il Trentino è l'unica provincia del Nord (assieme all'Alto Adige, che però è un'altra storia) governata dal centrosinistra (questo qualcuno dovrebbe ricordarlo ad esempio a Fede, che ha avuto la spudoratezza di dire: "Se ci fosse stato Prodi, al Governo, pensate che le avrebbe costruite, le case?").
Ho filmato e intervistato i volontari della Protezione civile trentina quando sono partiti alla volta dell'Abruzzo, poche ore dopo il terremoto. Erano le 11 del mattino del 6 aprile e già la prima colonna mobile si muoveva.
Eccoli qui (li avevo già postati, mi pare).
Io che sono tutto fuorché un uomo pratico, non posso che dire "bravi".
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Don't box me in
Omaggio a un piccolo-grande capolavoro di Coppola (padre), Rumble Fish (pesci combattenti), uscito in Italia con il titolo un po' pacchiano di Rusty il selvaggio. Con un cast sensazionale (Matt Dillon, Mikey Rourke, Dennis Hopper, Nicolas Cage, tutti ai loro esordi, e in un cammeo Tom Waits). Colonna sonora di Stan Ridgway dei Wall of Woodo e Steward Coppeland, uno dei più grandi batteristi della storia.
In apparenza è un film di bande, sul filone di West side story. In realtà è puro cinema e pura poesia.
Quando andai a vederlo per la prima volta, alla sua uscita, ero l'unico spettatore in sala!
La battuta (di Tom Waits, nella parte del barman "saggio", cito a memoria): "Quando sei giovane hai tempo, hai solo tempo. Sbatti via un paio di anni qua, un paio di anni là. Te ne freghi, tu. Già. Poi un giorno ti svegli e dici: oddio, e quanto mi resta? Solo trentacinque estati. Pensa un po'. Solo trentacinque estati."
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Epilepsy is dancing
Un sogno malato.
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Settembre, 11.
Alcuni momenti in cui ho sentito la storia entrare nella mia vita. Quei momenti in cui ti chiedi: dov'ero?
Il ritrovamento del corpo di Moro (maggio 1978, primavera avanzata, la gente che ne parlava per strada ad alta voce. Nella memoria lo confondo con l'elezione di Pertini a presidente della Repubblica, più o meno nello stesso periodo. Mio padre era felice che un vecchio socialista che aveva fatto la Resistenza fosse arrivato lì).
L'elezione di Gorbaciov (marzo 1985: non andai a lezione, rimasi nella mia stanzetta di studente a Bologna a leggere La Repubblica).
Il crollo del Muro di Berlino (novembre 1989: nonostante tutto, istintivamente non ero felice. Ostentai indifferenza. Mi sono ricreduto).
L'inizio delle guerre jugoslave (giugno 1991: già facevo il giornalista. Non simpatizzai per la Slovenia separatista. Una delegazione del Trentino Alto Adige andò a Lubjana per portare la solidarietà dei nostri territori; non ero d'accordo. Comunque la questione bosniaca non è stata risolta, ed è facile capire perché: la Bosnia è uno stato multietnico, molto più di Croazia o Slovenia).
11 settembre 2001. Ero in Argentina, nella remota regione del Chaco, quel giorno ero volato nel cuore della foresta chiamata "Impenetrabile". E' lì che sapemmo dell'attacco alle Torri gemelle. L'ho raccontato in "Music box", ecco qui.
Fu così che, un pomeriggio di settembre, ci ritrovammo lontani, very very far away. Foresta dell’Impenetrabile, Gran Chaco argentino. Era una foresta arida, diversa da quella amazonica. Fatta di migliaia di arbusti spinosi, cactus e quebracho rosso. Una strada tracciata con il righello sulla polvere, come tante strade di questo Continente, diritta come il percorso di una pallottola per centinaia di chilometri, con varie diramazioni che conducono alle fattorie sparse nella solitudine, dove splendide ragazze conducono la loro vita allevando capre e aspettando l’unica festa dell’anno per far conoscenza con qualche potenziale marito.
Tornavamo dalla visita ad uno di questi ranch, dove avevamo girato delle immagini per un documentario. Stavamo seduti dietro, sul cassone del pick-up, temendo che un animale sbucasse all’improvviso dalla boscaglia (gli autisti lì guidano come se avessero il diavolo che li insegue, o peggio, il camion assassino di Duel). Paolo aveva la telecamera tra le gambe. Marco si riguardava le foto scattate sul monitor della camera digitale. Ad un certo punto, si profilarono il lontananza le sagome di tre uomini, che camminavano sul ciglio della pista.
Ci fermammo accanto a loro, offrendo un passaggio, come s’usa nelle regioni spopolate. Erano degli indios. Salirono sul cassone, e cominciarono a parlarci, ma non ci intendevamo bene, il loro spagnolo non era un granché e così il nostro. Usarono le mani: con una mimavano un aereo, quello si capiva (anche perché con la bocca facevano “wooonh …”), con l’altra un ostacolo, tipo una parete di roccia, su cui l’aereo ad un certo punto si andava a schiantare.
“Dove?”, gli chiedemmo. Pensavamo che uno dei piccoli aerei che volano nel Chaco dalla capitale Resistencia fosse andato a sbattere, anche se non immaginavamo come avesse fatto, visto che la regione è piatta.
“New York, New York!”.
Siamo arrivati ad un villaggio. Ci trascinarono in una casa, sul tetto svettava l’antenna parabolica. Dentro, in un salottino, parecchie persone stavano guardando la televisione, succhiando il mate con la loro bombilla, espressioni impenetrabili sui visi segnati dal troppo sole.
Ci girammo anche noi verso lo schermo, dopo avere salutato. Sembravano immagini di un film catastrofico, o di un video death-metal. Due aerei di linea che si sfracellavano, uno dopo l’altro, contro le Torri gemelle del World Trade Center.
L'11 settembre non è stato raccontato bene dalla letteratura. Neanche Don De Lillo, un grande, ci è riuscito. Molti eventi sono stati più sanguinosi di quello ma rimane senza dubbio il più incredibile, perché ebbe come teatro LA CITTA', la città per eccellenza, la città più sognata, immaginata, rappresentata e di quella città le sue punte più alte, il culmine di lisce superfici riflettenti, il luogo dove si fa il nodo... E la città, malgrado ogni sua mistificazione, rende liberi.
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Corno bianco - Weisshorn
Ripresa dalla cima del Corno bianco-Weisshorn. Solo con una macchinetta fotografica digitale, ahimé. Vale quel che vale.
Il Corno bianco non è una cima molto alta (2300 e qualcosa) ma ha il vantaggio di non avere altre montagne vicino, a parte il gemello Corno nero. Quindi la vista spazia a 360° sulla maggior parte dei gruppi del Trentino Alto Adige, dall'Adamello-Brenta all'Ortles-Cevedale, dal Similaun all'Altissima, e poi, più bassi e più vicini, i monti Sarentini, splendide praterie di solitudini, il Corno del Renon, lo Sciliar, il Rosengarten che spunta dietro, un poco, il Latemar lì di fronte, e poi i contrafforti dei Lagorai...
E' un'ascensione magnifica, non dal passo Occlini, piuttosto dall'idillio di Redagno, la chiesetta isolata su un monticello, una scuola elementare di fronte al pascolo, la più bella del mondo. Da lì si inzia a salire, per boschi, fino al grande canyon formato dal Bletterbach, il Butterloch, spettacolare squarcio sul fianco della montagna, palestra di studi geologici (è uno dei gruppi dolomitici iscritti nei beni Unesco), che si risale, lentamente, a volte con affacci sul bordo della gigantesca ferita di terra e sassi, fino a sbucare oltre la linea dei larici, e infilarsi in un bosco di pini mughi, sempre più su, più su, fin quando anch'essi scompaiono e rimane solo roccia dolomitica, solo bianco calcare e più su, su, fino all'ultimo salto di roccia e alla croce di cima. Sono 1000 metri di dislivello circa, una salita di 2.30-3 ore. 3 ore di felicità, per quanto mi riguarda.
Un figlio di puttana strafottente
I divi incarnano le passioni nascoste della gente, i desideri latenti, vivono vite per interposta persona. Al loro meglio, lo fanno con stile, eleganza, poesia.
Ho sempre amato Lou Reed per la sua musica e per i testi delle sue canzoni, fin da quando avevo 13 anni. Anche se la mia esistenza quotidiana aveva ben poco a che fare con la sua. E' stato il figliodiputtana strafottente che dimora da qualche parte dentro di me, e anche l'altro me stesso autodistruttivo, quello che si riconoscerebbe nella questione posta da E.A.Poe: "Perché facciamo quello che non dovremmo?". Quello che non ha assunto responsabilità nei confronti di niente e nessuno e non ha avuto figli.
Tuttavia così meravigliosamente poetico che a distanza di tanti anni tutti rendono omaggio alle sue canzoni. Come questa "Perfect day", incisa originariamente nel 1972, e divenuta un classico solo 20 anni dopo.
Solo un giorno perfetto
Bevendo sangria nel parco
E poi, più tardi
Quando fa buio, andiamo a casa
Solo un giorno perfetto
dare da mangiare agli animali allo zoo
E poi, più tardi
un film, e poi casa
Oh, è proprio un giorno perfetto
Sono contento di averlo passato con te
Oh, è talmente un giorno perfetto
Tu mi fai resistere e andare avanti
Tu mi fai resistere
Solo un giorno perfetto
Tutti i problemi lasciati da parte
Turisti per conto nostro
E' così divertente
Solo un giorno perfetto
Mi hai fatto dimenticare me stesso
Pensavo di essere qualcun altro,
qualcuno di valido
Oh, è talmente un giorno perfetto
Sono contento di averlo passato con te
Oh, è talmente un giorno perfetto
Tu mi fai resistere e andare avanti
Tu mi fai resistere
Raccoglierai ciò che hai seminato (x 2)
E poi, chi avrebbe il coraggio di cantare in tv con uno stuzzicadenti in bocca? Una canzone che inizia con questi versi qui? La maggior parte dei cantanti di oggi non saprebbe nemmeno pronunciarli.
Caught between the twisted stars
the plotted lines the faulty map
that brought Columbus to New York
Betwixt between the East and West
he calls on her wearing a leather vest
the earth squeals and shudders to a halt
(Preso tra gli astri confusi
le linee topografiche, la mappa approssimativa
che portarono Colombo fino a New York.
A metà strada tra l'est e l'ovest,
lui passa a prenderla indossando un gilet di pelle
la terra geme e si ferma in un brivido...)
E' un anno che tengo questo blog, e non so perché lo faccio a parte il fatto che è divertente. I blog in fondo non sono migliori o più incisivi dei giornali e della tv. Solo un altro modo di passare il tempo. Parlerò dell'11 settembre, la prossima volta...
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