Il senso della vita
Posto qui questo prezioso regalo. Mi sembra un degno corollario a ciò che ho scritto sotto. Il momento magico che passa, come un treno nella notte. Non i soldi, non il potere o l'industria o il marketing o la competitività. Una stamberga affacciata sul nulla. Vestiti dozzinali, appariscenti. Sudore, sottovesti, solitudini intercettate, ballando con degli sconosciuti. La rivelazione della vita sulla punta della sigaretta. Il bianco mescolato al nero, il bene in qualche modo, in qualche strano modo, mescolato al male, nulla di veramente puro. La seconda fottuta metà del XX secolo, signori. Il rock 'n' roll. E forse, sempre in qualche strano modo, la libertà.
Pensierini su/di Bauman, la libertà, la solidarietà
"La politica che si ispira alla saggezza postmoderna si orienta verso una continua ri-affermazione del diritto degli individui liberi a perpetuare e garantire le condizioni della loro libertà. Ma per fare questo ha bisogno di essere guidata dal triplice principio di Libertà, Differenza e Solidarietà ove solidarietà è la condizione necessarie e il contributo collettivo essenziale alla vitalità della libertà e della differenza. Ma se il mondo postmoderno è capace di generare da se stesso Libertà e Differenza lo stesso non si può dire per la Solidarietà. Ma senza solidarietà nessuna libertà è sicura mentre le differenze e il tipo di politica dell’identità che tendono a generare conducono, non di rado, alla interiorizzazione dell’oppressione."
Qui, a quanto pare, sta il paradosso della postmodernità: per realizzare appieno libertà e differenza essa necessita di solidarietà. Di responsabilità di fronte al volto dell’Altro. L’Altro che ci è sempre straniero. Solo così l’incertezza e l’inquietudine postmoderne potranno - forse - sedarsi.
Così Zygmunt Bauman.
Bauman è preoccupato dagli eccessi della libertà e usa i termini "postmoderno" e "postmodernità" come sinonimi o quasi di "liberalismo", "liberale" e persino di "democratico" (le società liberaldemocratiche sono capaci di generare da se stesse Libertà e Differenza è una frase che funziona altrettanto bene della sua). Il bersaglio potrebbe essere, più concretamente, il "neoliberismo". In Italia, a onor del vero, il neoliberismo tatcheriano e reaganiano non l'abbiamo mai conosciuto. In Italia la destra è un'ambigua espressione del solito, vecchio populismo. Non fa appello all'individuo, o alla mano invisibile del mercato; fa sempre appello al popolo, al Paese, al bene comune.
Del resto, di quale libertà parlavano i neoliberisti? Di quella garantita dal denaro, dalla CIA, dai servizi segreti? Il figlio della Tatcher collaborò all'organizzazione di un colpo di stato in Guinea equatoriale, un avventuriero mercenario molto lontano dall'icona algida e spietata della madre che ha pagato milioni di dollari per tirarlo fuori dalle prigioni e dai processi in cui è stato coinvolto.
Gli alfieri della libertà hanno spesso qualcosa da nascondere; si può essere liberi solo quando/se si rinuncia a qualcosa, non quando si prende/pretende sempre di più, e di più.
In quanto alla solidarietà, è cosa molto concreta e senza colore. Personalmente non so se sarei in grado di praticarla come quei quattro volontari del soccorso alpino che sono stati seppelliti ieri a Canazei. Eccola lì la solidarietà delle terre di montagna: partire mentre il sole tramonta e il pericolo valanghe è classificato 4 su 5 per andare a soccorrere due escursionisti di cui si ignora tutto anche l'identità; e farlo gratis, lasciando a casa famiglie, figli, calore, sicurezze. Sì, non so se sarei in grado di farlo. Indubbiamente, però, la solidarietà è questa. E, di nuovo, al pari della libertà, essa presuppone delle rinunce.
Gli eccessi della solidarietà poi si scontano con un "meno" di libertà, ovviamente. Con una coesione che è anche controllo sociale, spesso implicito, spesso avvertito dalle comunità come assolutamente naturale. Bauman vede anarchia dappertutto, vede l'impero del desiderio, e a volte ricorda certi passaggi (invero deliziosi) dei romanzi di Kundera, la logica dei diritti umani spinta alle sue estreme conseguenze, quando chiunque ha qualche diritto umano da rivendicare, il che produce un "impazzimento sociale" generale, il delirio rivendicazionista che paralizza le città e i centri decisionali.
Ma sembra non tenere in nessun conto la realtà delle valli e dei paesi di cui è pieno il mondo. I meccanismi per ridurre le differenze, per limitare le intemperanze dell'individualismo (nonché le umanissime richieste degli individui, come quella di avere una "buona morte", per restare a un caso di cronaca recente) funzionano eccome, fin troppo bene. Con tutto il bene, appunto (in termini di sicurezza e uguaglianza) e anche con tutto il male (in termini di appiattimento) che ne derivano.
Oggi l'onda lunga della postmodernità si infrange sui bastioni dei nuovi fondamentalismi. Personalmente non ho dubbi: dovendo scegliere fra due poli opposti, meglio Warhol, meglio la crisi del valori, meglio l'anomia della postmodernità delle granitiche certezze dei maestri della fede, degli ayatollah.
La vita reale fortunatamente non è così polarizzata, quantomeno non nelle nostre società democratico-liberali. Dovremmo tenerlo a mente. Dovremmo difendere il carattere sfaccettato, un po' molliccio, un po' "liquido", per usare un aggettivo caro a Bauman, dei nostri mondi. Dovremmo difendere la loro esuberante vitalità così come le loro ombre, le loro cupezze, la loro incessante produzione di interrogativi e dubbi. Invece a me pare a volte che alla gente la libertà - intesa come principio e non come querula, petulante perorazione di prebende, di favori, di deroghe - sia venuta a noia.
La laicità è performativa, mi ha detto una volta Gian Enrico Rusconi. Intendeva dire che produce immediatamente degli effetti nella vita reale. Che è il presupposto per tutto il resto. La precondizione.
Beh, insomma: la libertà e la precondizione. Bauman ne sembra spaventato. Spaventato dall'umanesimo. Spaventato dalla modernità prima ancora che dalla postmodernità. Dalla sostituzione della Legge con l'Uomo. Certo, l'uomo è capace di Auschwitz e di Treblinka, della Tratta degli Schiavi, di Hiroshima. Ma è tutto ciò che abbiamo. L'uomo e la sua libertà. Anche per il dialogo con l'Altro. Per questo si può dialogare con tutti ma è così difficile farlo con chi nega i presupposti stessi del dialogo, ovvero la libertà e ciò che da essa discende (laicità, democrazia ecc.)
Questo è oggi il paradosso più grande che dobbiamo affrontare. Come dialogare con i merdosi Talebani, afghani e magari anche di casa nostra. Un paradosso molto più grande di quello che ci propone la postmodernità, Zygmunt.
Foto: mostra di arte contemporanea ad Hanoi, Vietnam (m. pontoni)
L'amore è assolutista
L'amore è assolutista, non democratico. L'amore è geloso, possessivo, l'amore piglia tutto, anche le briciole. L'amore, come si fa a costruire la politica sull'amore? E se non lo vuoi, questo amore, se rifiuti il suo caldo abbraccio avvolgente? Sei un nemico dell'amore. Quindi un essere spregevole, perché come si fa a non volere l'amore? Nemico dell'amore, nemico del popolo. Una persona di cui è meglio diffidare. Da rinchiudere.
Tutto questo non ha nulla a che fare con le democrazie liberali, basate sulla sana competizione fra schieramenti diversi. Ha a che fare con il fondamentalismo religioso. Ha a che fare con il patriottismo più deteriore, con il paradiso in terra, con le magnifiche sorti e progressive. Quest'ultima uscita del partito dell'amore fa di Berlusconi un perfetto capopopolo komunista.
Tutto questo non ha nulla a che fare con le democrazie liberali, basate sulla sana competizione fra schieramenti diversi. Ha a che fare con il fondamentalismo religioso. Ha a che fare con il patriottismo più deteriore, con il paradiso in terra, con le magnifiche sorti e progressive. Quest'ultima uscita del partito dell'amore fa di Berlusconi un perfetto capopopolo komunista.
Canzone per Natale
C'è il temporale, e nelle case, la luce si fa artificiale...
E questo è quanto, per ora.
I'm Outta Time
Coltivando interessi che non interessano a nessuno, schifando passioni che spingono avanti le persone, fasci di nervi, mascelle taglienti, tutto il corpo proteso nello sforzo, spinte con le braccia e piedi che scalciano, i polpacci sudati, i deodoranti, il potere, ambizioni che ignoro.
E' così che si esce dal tempo, è svoltare l'angolo, un pomeriggio di giugno, o era maggio,? C'erano tutti quei petali sul marciapiede, sì, forse era maggio e il tempo si è disteso, come un disco di pasta.
E' così che si diventa un po' autistici?
I migliori del decennio - secondo "La Repubblica"
Ieri "La Repubblica" ha pubblicato le sue classifiche di libri, film e dischi del decennio, giochino sempre divertente, ammettiamolo.
Mi limito a commentare dischi e libri stranieri, i due settori che frequento di più.
Sul fronte dischi, la palma va a "Kid A" dei Radiohead, seguito da "I'm a bird now" di Anthony. Entrambe i giudizi mi trovano sostanzialmente favorevole. I Radiohead sono stati uno dei gruppi più influenti negli anni '90, e sono traghettati negli anni 2000 rinnovando completamente la loro musica (all'origine un rock di chitarre), gettando un luminoso ponte trasparente fra la riva del rock e quella dell'electro. "Kid A" in questo senso è forse il loro disco più rappresentativo, più ancora di "Ok computer" che all'epoca venne (altrettanto giustamente) osannato. I Radiohead hanno creato uno standard: se dovessi avvicinare qualche gruppo dei 2000 alla loro musica non potrei che pensare ai tedeschi Lali Puna, che mi sarebbe piaciuto vedere in classifica.
In quanto ad Anthony, la sua è la voce del momento. Una voce capace come poche di dare corpo al dolore e alla redenzione. Non a caso, fra i suoi scopritori abbiamo Lou Reed, che lo ha voluto in tour con sé nella prima metà del decennio e poi anche per alcune date di "Berlin" e gli ha fatto reincidere canzoni storiche come "Perfect day" o la velvettiana "Candy says".
Bene anche il sesto posto di "Love and theft" di Bob Dylan, uno dei capolavori della sua discografia, con quella voce come carta abrasiva e una manciata di canzoni memorabili, da "Mississipi" a "Po' boy". Bene anche Eminem con il suo "Marshall Matther" (dopotutto Eminem è l'unico rapper che si tira fuori dal mazzo dei papponi), mentre sugli Strokes di "This is it" ho qualche dubbio: sono stati certamente fra i gruppi più rappresentativi della scena indie rock, e hanno scritto ottime canzoni, ma: 1) i loro dischi sono sostanzialmente identici, senza apprezzabili modifiche o evoluzioni dall'uno all'altro, verrebbe da chiedersi perché "This is it" e non "Rooms on fire", ad esempio; 2) è difficile superare l'obiezione mossa loro da Paul Morley in "Metapop", secondo la quale gli Strokes sono il miglior gruppo rock...degli anni '60!
Al decimo posto, infine, Manu Chao con "Proxima estacion experancia". Notevole anche questa come scelta. E le donne? Due: Amy Whinehouse al terzo posto e Bjork con "Medulla" al nono. Che dire? neanche negli anni 2000 è venuta fuori la nuova Patti Smith.
Le esclusioni: me ne vengono in mente essenzialmente due. Anzi tre. Anzi quattro. Cinque, via. La prima: Mark Lanegan, "Bubblegum", un disco da brividi, stanze spoglie, scale che scricchiolano, sangue sul muro, sogni e incubi. La seconda: "The raven", un po' perché per me Lou Reed non può mai mancare, lui ha scritto il canone e ha tracciato il solco (non a caso, con chi ha suonato negli anni 00? Strokes, Killers, Raconteurs...), un po' perché il disco, specie quello doppio, con i recitati, rappresenta uno degli esempi più felici di connubio rock-letteratura (in questo caso, Edgar Allan Poe). La terza: i Killers. La quarta: Jack White in una qualche sua incarnazione, si chiami White Stripes o Dead Wheater. La quinta: Willard Grant Conspiracy, "Regard the ends".
Per la narrativa straniera il discorso è un po' più breve perché conosco solo due dei romanzi menzionati: "Le correzioni" di Franzen e "Elizabeth Costello" di Coetzee, che io avrei messo al primo e secondo posto, probabilmente (non so in quale ordine), anziché al settimo e ottavo (e del sudafricano avrei aggiunto anche "Vergogna", pubblicato da Einaudi nel 2000, ma probabilmente era uscito già prima in lingua inglese...).
Il romanzo di Franzen è un affresco straordinario, perfettamente bilanciato in ogni sua parte, uno di quei libri che ti fanno dire che, sì, la letteratura è ancora più interessante della vita, dopotutto. Quello di Coetzee è una sorta di romanzo filosofico declinato attraverso una serie di conferenze e saggi della protagonista, la scrittrice Elizabeth Costello, alter ego di Coetzee. Piace soprattutto a chi ha passato molta parte della sua vita frequentando eventi del genere (lezioni universitarie, simposi e quant'altro), ma stupisce come lo scrittore abbia saputo dare a questa materia un taglio (anche) narrativo. Un'opera asssolutamente originale, insomma, davvero degna di un Nobel.
Non so dire del primo classificatosi, "La strada" di Mc Charty, perché non l'ho letto (ancora). L'esclusione più clamorosa? Pamuk, "Neve", uno dei vertici della narrativa contemporanea. In generale forse avrei apprezzato un po' più di fantasia nei compilatori: non so, Houellebecq non è un prosatore perfetto; a volte ripetitivo, disomogeneo, troppo prodigo di prodezze sessuali nelle sue pagine come molti francesi, ma certamente è uno di quegli scrittori che colgono, eccome, lo spirito dei tempi. E poi, un po' provocatoriamente, "Chronicles" di Bob Dylan, una bellissima prova, un approccio obliquo al tema dell'autobiografia che andrebbe valorizzato, a prescindere dal personaggio. Infine, capisco che sarebbe sembrata una scelta tardiva, condizionata dal premio recente, ma Herta Muller con il suo "Il paese delle prugne verdi", ci sarebbe stata eccome in una classifica in cui le donne non abbondano (ma il libro è degli anni 2000 solo per il mercato italiano, in effetti...).
Una nota, infine, sul primo posto nella classifica "Libri italiani: "Gomorra" di Saviano. Un non-romanzo, o una docu-fiction, per dirla con il linguaggio dei video. Un po' come "L'abusivo" di Antonio Franchini , arrivato terzo (con tutto il rispetto per Saviano, che ha scritto un libro "enorme", io forse preferisco Franchini, addirittura il Franchini di "Quando vi ucciderete, maestro", indimenticabile titolo degli anni '90 su un tema caro all'autore ma assai poco bazzicato dai narratori, le arti marziali, la passione per gli sport di combattimento. Con quell'approccio, autobiografia romanzata, diciamo così, si potrebbe scrivere di qualunque cosa).
Io di libri di autori italiani ne leggo pochi; solo per una breve stagione, quella dei cosiddetti cannibali, mi sono avvicinato alla narrativa contemporanea del mio paese. Comunque, se dovessi dare una palma, forse la darei a Elena Ferrante, "I giorni dell'abbandono", pubblicato nel 2002. Secco, forte, sincero fino alla crudeltà.
Mi limito a commentare dischi e libri stranieri, i due settori che frequento di più.
Sul fronte dischi, la palma va a "Kid A" dei Radiohead, seguito da "I'm a bird now" di Anthony. Entrambe i giudizi mi trovano sostanzialmente favorevole. I Radiohead sono stati uno dei gruppi più influenti negli anni '90, e sono traghettati negli anni 2000 rinnovando completamente la loro musica (all'origine un rock di chitarre), gettando un luminoso ponte trasparente fra la riva del rock e quella dell'electro. "Kid A" in questo senso è forse il loro disco più rappresentativo, più ancora di "Ok computer" che all'epoca venne (altrettanto giustamente) osannato. I Radiohead hanno creato uno standard: se dovessi avvicinare qualche gruppo dei 2000 alla loro musica non potrei che pensare ai tedeschi Lali Puna, che mi sarebbe piaciuto vedere in classifica.
In quanto ad Anthony, la sua è la voce del momento. Una voce capace come poche di dare corpo al dolore e alla redenzione. Non a caso, fra i suoi scopritori abbiamo Lou Reed, che lo ha voluto in tour con sé nella prima metà del decennio e poi anche per alcune date di "Berlin" e gli ha fatto reincidere canzoni storiche come "Perfect day" o la velvettiana "Candy says".
Bene anche il sesto posto di "Love and theft" di Bob Dylan, uno dei capolavori della sua discografia, con quella voce come carta abrasiva e una manciata di canzoni memorabili, da "Mississipi" a "Po' boy". Bene anche Eminem con il suo "Marshall Matther" (dopotutto Eminem è l'unico rapper che si tira fuori dal mazzo dei papponi), mentre sugli Strokes di "This is it" ho qualche dubbio: sono stati certamente fra i gruppi più rappresentativi della scena indie rock, e hanno scritto ottime canzoni, ma: 1) i loro dischi sono sostanzialmente identici, senza apprezzabili modifiche o evoluzioni dall'uno all'altro, verrebbe da chiedersi perché "This is it" e non "Rooms on fire", ad esempio; 2) è difficile superare l'obiezione mossa loro da Paul Morley in "Metapop", secondo la quale gli Strokes sono il miglior gruppo rock...degli anni '60!
Al decimo posto, infine, Manu Chao con "Proxima estacion experancia". Notevole anche questa come scelta. E le donne? Due: Amy Whinehouse al terzo posto e Bjork con "Medulla" al nono. Che dire? neanche negli anni 2000 è venuta fuori la nuova Patti Smith.
Le esclusioni: me ne vengono in mente essenzialmente due. Anzi tre. Anzi quattro. Cinque, via. La prima: Mark Lanegan, "Bubblegum", un disco da brividi, stanze spoglie, scale che scricchiolano, sangue sul muro, sogni e incubi. La seconda: "The raven", un po' perché per me Lou Reed non può mai mancare, lui ha scritto il canone e ha tracciato il solco (non a caso, con chi ha suonato negli anni 00? Strokes, Killers, Raconteurs...), un po' perché il disco, specie quello doppio, con i recitati, rappresenta uno degli esempi più felici di connubio rock-letteratura (in questo caso, Edgar Allan Poe). La terza: i Killers. La quarta: Jack White in una qualche sua incarnazione, si chiami White Stripes o Dead Wheater. La quinta: Willard Grant Conspiracy, "Regard the ends".
Per la narrativa straniera il discorso è un po' più breve perché conosco solo due dei romanzi menzionati: "Le correzioni" di Franzen e "Elizabeth Costello" di Coetzee, che io avrei messo al primo e secondo posto, probabilmente (non so in quale ordine), anziché al settimo e ottavo (e del sudafricano avrei aggiunto anche "Vergogna", pubblicato da Einaudi nel 2000, ma probabilmente era uscito già prima in lingua inglese...).
Il romanzo di Franzen è un affresco straordinario, perfettamente bilanciato in ogni sua parte, uno di quei libri che ti fanno dire che, sì, la letteratura è ancora più interessante della vita, dopotutto. Quello di Coetzee è una sorta di romanzo filosofico declinato attraverso una serie di conferenze e saggi della protagonista, la scrittrice Elizabeth Costello, alter ego di Coetzee. Piace soprattutto a chi ha passato molta parte della sua vita frequentando eventi del genere (lezioni universitarie, simposi e quant'altro), ma stupisce come lo scrittore abbia saputo dare a questa materia un taglio (anche) narrativo. Un'opera asssolutamente originale, insomma, davvero degna di un Nobel.
Non so dire del primo classificatosi, "La strada" di Mc Charty, perché non l'ho letto (ancora). L'esclusione più clamorosa? Pamuk, "Neve", uno dei vertici della narrativa contemporanea. In generale forse avrei apprezzato un po' più di fantasia nei compilatori: non so, Houellebecq non è un prosatore perfetto; a volte ripetitivo, disomogeneo, troppo prodigo di prodezze sessuali nelle sue pagine come molti francesi, ma certamente è uno di quegli scrittori che colgono, eccome, lo spirito dei tempi. E poi, un po' provocatoriamente, "Chronicles" di Bob Dylan, una bellissima prova, un approccio obliquo al tema dell'autobiografia che andrebbe valorizzato, a prescindere dal personaggio. Infine, capisco che sarebbe sembrata una scelta tardiva, condizionata dal premio recente, ma Herta Muller con il suo "Il paese delle prugne verdi", ci sarebbe stata eccome in una classifica in cui le donne non abbondano (ma il libro è degli anni 2000 solo per il mercato italiano, in effetti...).
Una nota, infine, sul primo posto nella classifica "Libri italiani: "Gomorra" di Saviano. Un non-romanzo, o una docu-fiction, per dirla con il linguaggio dei video. Un po' come "L'abusivo" di Antonio Franchini , arrivato terzo (con tutto il rispetto per Saviano, che ha scritto un libro "enorme", io forse preferisco Franchini, addirittura il Franchini di "Quando vi ucciderete, maestro", indimenticabile titolo degli anni '90 su un tema caro all'autore ma assai poco bazzicato dai narratori, le arti marziali, la passione per gli sport di combattimento. Con quell'approccio, autobiografia romanzata, diciamo così, si potrebbe scrivere di qualunque cosa).
Io di libri di autori italiani ne leggo pochi; solo per una breve stagione, quella dei cosiddetti cannibali, mi sono avvicinato alla narrativa contemporanea del mio paese. Comunque, se dovessi dare una palma, forse la darei a Elena Ferrante, "I giorni dell'abbandono", pubblicato nel 2002. Secco, forte, sincero fino alla crudeltà.
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Forever young
Gli Alphaville, profondi anni '80 (ignorate quella scritta del cazzo su sfondo verde).
Jay - Z, anni 2000. Della serie: non si butta mai via niente. Comunque a me questa versione piace.
Questo invece è Bob Dylan, profondi anni '70. Da "The last waltz" di Martin Scorsese, the last concert of The Band.
E questi gli anni '60.
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Un cane sciolto
Si può fare tutta la sociologia di questo mondo, ma resta un cane sciolto, uno che è in cura da 10 anni per turbe psichiche. Solo un individuo, senza nessuna responsabilità collettiva sulle sue spalle.
Il suo gesto non dimostra nulla.
Anche Pallante era un cane sciolto. Uno partito dalla Sicilia con l'idea di salvare l'Italia dal comunismo. Si è fatto solo 4 anni di prigione (e lui usò una pistola, non una statuetta!). E per il resto della sua lunga vita, l'oscuro amministratore di condominio a Catania.
All'epoca Togliatti raffreddò gli animi. Era una stagione pericolosa, c'erano ancora in giro molte armi e un sacco di gente che sapeva usarle (si era appena conclusa la Liberazione). La guerra civile forse non sarebbe scoppiata comunque; però il contributo del "migliore" fu fondamentale.
Dovrebbe essere così anche adesso. Nessuno dovrebbe permettersi di dire che è colpa dei giornali, della stampa nemica, di chi manifestava, dei soliti giudici...
Così si soffia solo sul fuoco. E questo fuoco, se rimaniamo al gesto di Tartaglia, è un fuoco di paglia, non l'incendio della Storia.
Comunque, Berlusconi è un macigno sulla storia politica dell'Italia, e il suo superamento non potrà che essere politico, appunto.
Il suo gesto non dimostra nulla.
Anche Pallante era un cane sciolto. Uno partito dalla Sicilia con l'idea di salvare l'Italia dal comunismo. Si è fatto solo 4 anni di prigione (e lui usò una pistola, non una statuetta!). E per il resto della sua lunga vita, l'oscuro amministratore di condominio a Catania.
All'epoca Togliatti raffreddò gli animi. Era una stagione pericolosa, c'erano ancora in giro molte armi e un sacco di gente che sapeva usarle (si era appena conclusa la Liberazione). La guerra civile forse non sarebbe scoppiata comunque; però il contributo del "migliore" fu fondamentale.
Dovrebbe essere così anche adesso. Nessuno dovrebbe permettersi di dire che è colpa dei giornali, della stampa nemica, di chi manifestava, dei soliti giudici...
Così si soffia solo sul fuoco. E questo fuoco, se rimaniamo al gesto di Tartaglia, è un fuoco di paglia, non l'incendio della Storia.
Comunque, Berlusconi è un macigno sulla storia politica dell'Italia, e il suo superamento non potrà che essere politico, appunto.
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Tory Hans II
Cap. II
Le lingue
Quand’era estate Tory Hans accompagnava il padre sui pascoli trasognati che, dalla cima erbosa del monte di Villandro, digradano fino ai boschi da cui si origina il rio Tina, il quale precipita spumeggiando per una stretta gola e sfocia a Klausen, dai tetti irti, Klausen dei prelati e dei pittori, degli ospizi per i viandanti, delle parole sussurrate all’orecchio. Presto il padre si rese conto che la vista prodigiosa di cui la natura aveva dotato il figlio rendeva superflua la sua presenza. All’età di sette anni, Tory Hans era in grado di intuire con molte ore di anticipo se sul pascolo si sarebbe scaricata una bufera, col suo corredo di grandine e folgori. Gli era sufficiente osservare per qualche minuto le nuvole per capirlo. Come avanzavano compatte dietro la barriera dei monti di Pfunders (che il padre non riusciva a mettere a fuoco, benché s’alzasse in punta di piedi strizzando gli occhi), quanto tempo ci impiegassero ad abbracciare le guglie capricciose delle Odle (che per il padre erano solo una pallida massa sfocata di rocce dolomitiche), e che colore assumevano, infine, i loro strati superiori e quelli inferiori, quando gravavano cupe sul Montaccio (ma a quel punto Vater Taag solitamente aveva già sospinto le bestie dentro la malga).
Tory Hans sapeva inoltre individuare con precisione infallibile la presenza dei lupi, e all’occorrenza, abbattere con una fionda gli uccelli in volo. In grazia di ciò, fin dall’età di sei anni il padre gli consentì di condurre da solo gli animali all’alpeggio. Il ragazzo non temeva la solitudine. Restava in malga tutta la stagione, e il padre, ogni settimana, saliva dal fondovalle a portargli le provviste.
Nel corso di quelle lunghe estati assolate, rotte all’improvviso dal fragore dei temporali, per poi placarsi, stremate, all’arrivo della notte, che confonde angoli e contorni, Tory Hans fece conoscenza con le lingue antiche, codificate dalla tradizione secolare, le lingue delle rocce e dei sassi della montagna. Cominciò dal porfido rossigno, dai massi che s’accatastano ai piedi dei colli, coperti di licheni. S’accostò alle frane, ai pilastri, ai diedri, agli spigoli, e udì il borbottare del porfido, come di una zuppa che ribolle nella pentola. Il porfido gli parlò di vulcani e di lava che cola pigramente, per chilometri, che si raffredda, stagione dopo stagione, che si rafforza; ma il ragazzo sentì anche, più sotto, seminascosta dal brontolio della voce principale, una voce più sottile, quella del quarzo, che in un’altra lingua diceva: senza il mio contributo non saresti così duro e resistente!
Per secondo venne il granito, che si esprime con suoni sordi. Tutto ciò che raccontava il granito aveva la cadenza epica delle leggende. Alte temperature, profondità abissali. E infine, una forza enorme che spinge le masse rocciose in superficie, dove vento e pioggia le puliscono dai residui, affinché svettino, vertiginose, sotto l’occhio vigile del sole preistorico.
Quand’era stanco delle vanterie del granito, Tory Hans prestava orecchio a quella lingua gentile le cui parole gli giungevano, a volte, dall’altra parte della valle, assieme al vento. Presto fu in grado di decifrare anch’essa, la lingua delle formazioni sedimentarie, divisa in tanti dialetti. L’arenaria sembrava avesse sempre la bocca impastata, e gli strati di Werfen la sfottevano con la loro pungente ironia. Le dolomie, che amano gli scherzi e i discorsi frivoli, riportavano i pettegolezzi uditi dai branchi di molluschi, dalle madrépore, dalle alghe.
Arrivato al suo terzo, o quarto pascolo estivo, Tory Hans riuscì da ultimo a tradurre qualche parola della lingua in assoluto più difficile fra le parlate diffuse a quella latitudine, la lingua delle rocce metamorfiche, che presenta numerose varianti e prende spesso a prestito espressioni e motti dalle sue sorelle. Il ragazzo era incuriosito da quel tanto di precario che s’intuiva esservi in essa; decifrò confusi sproloqui di sfasciumi, storie di enorme pressione, movimenti della crosta terrestre, sfaldamenti e crolli. Fece domande indiscrete a Filladi scontrose, a Gneiss promiscui, a Micascisti. Visitò cave scoperchiate, dove i marmi custodivano il segreto della fatica umana e del pericolo. Rise dei suoi successi, le spalle si abbronzavano. Era contento.
Queste le lingue che Tory Hans imparò a parlare da ragazzo, quando portava le bestie al pascolo sul monte di Villandro. E talvolta le rocce, tutte insieme, si divertivano a prenderlo in giro, raccontandogli di vermi giganteschi dalla testa di gatto che vivono in profonde grotte (3), di laghi nascosti nel cuore di montagne remote (4).
Ma il maestro della scuola elementare di Sarnburg non era affatto entusiasta dei progressi di Tory Hans con le lingue delle rocce. “Malgaro Occhio di Falco” l’aveva soprannominato.
“Malgaro Occhio di Falco ha delle strane teorie, per la testa!”.
La ragione di questa diffidenza erano le mezze frasi che talvolta Tory Hans si lasciava sfuggire al cospetto dell’intera classe; frasi che diceva di aver sentito pronunciare, appunto, sulle montagne. Le frasi, a poco a poco, divennero discorsi compiuti, con un capo e una coda. Il più tremendo (alle orecchie del maestro) incominciò così:
“Le rocce, come gli uomini, parlano lingue diverse. E così gli animali e le piante”.
“Bella scoperta” lo punzecchiava il maestro.
“Ma la spiegazione è scritta nella Bibbia”.
“Davvero? Sono tutt’orecchi!”.
“Quando Dio vide che gli uomini si avvicinavano alla volta del Cielo con la loro torre, pensò: confondiamo le loro lingue, così che non si comprendano più l’uno con l’altro. Questa maledizione si è abbattuta sugli uomini, seminando confusione e sgomento. Ma la confusione che è regnata da quel giorno fra gli uomini si riflette su tutto il Creato, perché il Creato partecipa dell’arroganza degli uomini che costruirono la torre; di conseguenza anche gli animali (che trascinarono i carri colmi del materiale da costruzione per la torre), le piante (i cui frutti nutrirono i costruttori della torre) e le rocce (la torre in sé) non possono che parlare lingue diverse”.
L’idea che gli animali e perfino le cose mute potessero parlare, oh, non era questa a fare innervosire il maestro; fantasie del genere sono comuni a quasi tutti i figli dei pastori, così come le superstizioni e i pensieri impuri. Ma che la molteplicità delle parlate fosse conseguenza di una maledizione divina, ecco, questa sì era una conclusione difficile da digerire per lui (parlava correttamente tre lingue e ne comprendeva altrettante).
“Le bugie - sbottò, incollerito - è il Diavolo a suggerirtele, quando te ne stai troppo a lungo lassù da solo. E bada, questo è solo l’inizio. Il Diavolo può suggerirti cose ben peggiori!”.
Il maestro mise in giro la voce che forse nella vista tanto acuta del ragazzo c’era lo zampino di Satana (Povero maestro. Dopotutto aveva consacrato la sua giovinezza proprio allo studio delle lingue straniere. Aveva soggiornato a München, città che in cuor suo detestava, e a Napoli, il cui ricordo lo faceva ancora trasalire. Le conoscenze di cui si faceva vanto gli erano costate sudore e fatica. Come poteva accettare che un ragazzino senza peli sostenesse candidamente la tesi per la quale le lingue sono conseguenza di una punizione divina? Tantopiù che quella tesi, così semplice, così elementare, gli sembrava, oh, orribile ammissione, inattaccabile dal punto di vista teologico. O meglio: ad essa era possibile replicare solo con la calunnia).
Ma la calunnia giunse al fratello maggiore di Tory Hans, che si sentì in dovere di intervenire. Con la complicità della sua banda, rapì il maestro e lo nascose, ben legato, in una baita nel bosco. Indi gli tolse le scarpe e cosparse i suoi piedi di sale. Chiamò le capre, ed esse cominciarono a leccare il sale con le loro lingue ruvide. Il maestro non sopportava il solletico.
Dopo un po’, allontanarono le capre e fecero respirare la vittima. Quindi il fratello le chiese :”Ammetti, adesso, che le lingue sono una maledizione, divina, e che possono perfino uccidere?”.
“Non è questo il punto!” s’impuntò il maestro.
Allora sparsero nuovo sale sui suoi piedi e lasciarono che le capre ne leccassero a volontà.
Se ne andò ridendo, la sua scomparsa non destò sospetti.
Foto: alpe di Villandro, Sarntal.
(pubblicato a puntate su "L'Adige", circa estate 2000...divertissement tirolese...)
Prima puntata qui
Compagni di viaggio
Il nostro Bob Dylan.
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House with no door
Cantava come se non conoscesse la canzone, come se stesse provandola per la prima volta, cercando gli accordi sul pianoforte e lanciando ogni tanto uno sguardo allo spartito per ritrovare una linea melodica, un tempo, o persino le parole del testo.
Prendeva lo spettatore all'amo, lo costringeva a seguirlo con la testa sollevata, la guancia deformata dall'uncino. Quando un cantante porta tutta la platea con sé, incitandola al coro...bene, era tutto il contrario. Lo si ascoltava con apprensione, si aveva sempre la sensazione che il brano ad un certo punto sarebbe franato, che non sarebbe riuscito a portarlo fino in fondo.
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