Se anche parlassi la lingua degli angeli




Se anche parlassi la lingua degli angeli, se non ho l'amore, non sono che un bronzo risonante.
Se anche avessi il dono della profezia, la scienza di tutti i misteri, e tutta la conoscenza,
se anche avessi tutta la fede, si' da muovere le montagne, se non ho l'amore, non sono nulla.
L'amore e' paziente, e' pieno di bonta'
tutto sopporta, tutto spera.
L'amore non muore mai, poiche' le profezie termineranno, le lingue taceranno, la conoscenza svanira'.
Ora perdurano fede speranza e amore. Ma, dei tre, il piu' grande e' l'amore.

Corinzi, 13.

Junior dad

Mi chiedevo come sarebbero stati i miei artisti preferiti "da vecchi". A 15 anni l'idea di vecchio è un po' vaga: qualcosa che ha a che fare con i tuoi genitori o i tuoi parenti, probabilmente, o con una generica idea di maturità, decoro, prestanza fisica ridotta. Il concetto applicato al rock, poi, sembrava un po' incongruo. Certo, Lou Reed aveva molti più anni di me, quando ho cominciato ad ascoltarlo, navigava verso i 40. Ma non era oltre quella soglia. Non ancora. Non lo era nessuno.
Dunque da un lato c'erano le band quasi nostre coetanee, come i Cure o i Simple Minds (che sembravano formate da persone giovani sì, ma più grandi di noi, non boy band, insomma).
Dall'altro c'era la musica dei giganti, quelli come Bowie, Lou, i Rolling Stones, che erano non anziani ma comunque già in giro da un bel po' di tempo. L'interrogativo sulla vecchiaia si poneva per loro: come sarebbero stati, da vecchi? Difficile immaginarlo. Un po' perché si aveva alle spalle una serie di morti illustri (Jim, Janis, Jimi ecc.), l'idea del grande artista rock era ancora, spesso, associata alla morte precoce. Un po' perché il rock, comunque sia, non poteva non accompagnarsi ad una certa capacità di muoversi, di fare scena. Valeva anche per Lou Reed, posto che l'uomo, quando aveva temporaneamente abbandonato la chitarra per stare sul palco come una vera rock star, accompagnando le sue canzoni con le movenze e la gestualità della rock star, era parso più una stranita bambola proto-punk strafatta di anfetamine che un danzerino provetto.
C'era però l'esempio del blues, ecco. I cantanti blues avevano suonato fino alla fine, fin quando erano proprio decrepiti. Ma il blues, pur essendo strettamente imparentato col rock, ci sembrava comunque un'altra cosa. Il blues lo si poteva suonare anche stando seduti. Ed infatti così avevano fatto i vari John Lee Hooker o B.B. King quando non erano più riusciti a stare in piedi con una chitarra a tracolla per le due ore canoniche di uno show. Ma si potevano immaginare un Lou Reed, un Mick Jagger seduti a cantare le loro canzoni? Mmmh...

Ora Lou Reed ha 70 anni. Suona ancora in piedi, ultimamente con i Metallica. Il cantato è spesso più simile a un recitato, anche nei brani più tirati. Corde vocali irrigidite.
Lou Reed suona e canta ad esempio "Junior dad", una canzone dell'ultimo, contestato album, "Lulu", ispirato ai libri di Frank Wedekind.
La canzone in effetti è l'unica che non c'entra niente con il resto della storia, non ha a che fare con il personaggio letterario. Chiude l'album, ma non parla della tragica, dissoluta (ma anche pura, nel suo essere pianta carnivora) femme fatale che sulla carta (e così sul disco) finisce scannata da Jack lo Squartatore.
Parla della vecchiaia. Lou Reed, è vecchio, e chi se lo sarebbe aspettato, con quella vita? Negli anni 70 sembrava uno dei più prossimi candidati al cimitero delle celebrità. E' vecchio e canta la vecchiaia. La vecchiaia di suo padre, apparentemente. Padre giovane, junior, un padre ragazzino a cui rivolge una domanda: "Verresti in mio soccorso se stessi per affogare?"
Il figlio ora vecchio parla al padre giovane, lo interroga, lo incalza. Lo prega.

Ma poi, più sotto, il padre giovane improvvisamente è invecchiato, anzi, è morto.

Sta guidando verso un'isola di anime perse.

E ancora, qualcosa che assomiglia al ricordo di un discorso pronunciato in un tempo lontano, un amaro discorso:

Ti insegnerò meschinità, paura e cecità, nessuna idea sociale redentrice. Oh, stato di grazia...


Potrebbe sembrare il rimprovero - un poco scontato - di un figlio al proprio genitore, per le sue mancanze, per l'educazione ricevuta, così lontana dai valori morali e civili che ci si attenderebbe vengano trasmessi da un padre a un figlio, anche se, pronunciato a 70 anni, sarebbe comunque tardivo , diverso dalla canonica ribellione adolescenziale che il rock ha raccontato tante volte. Ma quel ricordo, quelle parole, sono anche un'epifania. "Stato di grazia...". Nel ricordo le cose cambiano di segno, perdono i loro connotati negativi, vengono rimpiante nonostante tutto. Nel ricordo ritroviamo un pezzo della nostra identità, giustifichiamo e ordiniamo le scelte che abbiamo compiuto durante la nostra vita.

Non finisce così, non ancora.
C'è un verso criptico, dopo.

Singhiozzo: il sogno è finito
Fai il caffè: accendi la luce

Forse - ha suggerito qualcuno (www.loureed.it) - è il sogno del padre giovane fatto dal figlio ora anziano a svanire con le prime luci del mattino. Il figlio si alza, prepara il caffè, contempla con l'occhio della mente, ancora eccitata dal sogno, il fantasma, l'ombra del padre, di un padre bambino perché ritornato bambino con la vecchiaia. E questo lo abbiamo visto tutti, no? L'età fa ritornare bambini. Sempre meno responsabilità, sempre più persone che si prendono cura di te. E forse - il dubitativo è d'obbligo - il figlio si guarda allo specchio, vede il fantasma del padre ma vede anche se stesso, vede solchi dove un tempo la guancia era liscia. E' lui il padre, ora, è identico a suo padre vecchio e morente, già andato, in cenere, quel padre che gli era sembrato immortale e che gli ricorda la sua mortalità, il comune destino di ogni uomo.

Di’ ciao al papà giovane
La delusione più grande
L’età lo ha avvizzito e trasformato
in un padre "piccolo"
(Una barbarie psichica)

Lou Reed aveva già cantato della vecchiaia, ad esempio in "Change", dal penultimo "The Raven" (anch'esso ispirato dalla letteratura, da E. A. Poe). E anche in quell'occasione, lo aveva fatto con toni non lusinghieri (testicoli che avvizziscono, insomma. Lo spettro della morte).
Ma non aveva mai usato questa lama spietata. Nessuna consolazione. Qui non c'è un giovane cantante che dedica una sonata a suo nonno, non c'è Claudio Baglioni, nulla di sentimentale (anche se c'è pathos e sentimento). Un uomo vecchio che guarda in faccia il suo disfacimento riflesso nella figura di un junior dad invecchiato a tal punto da tornare un bambino. In fondo alla pista c'è solo

La delusione più grande

Finisce così? E' di nuovo, eternamente, il Lou Reed tragico, stoico, implacabile? Senz'altro sì.
Ma questa dopotutto è una canzone, non un racconto o una poesia. Bisogna ascoltare anche la musica.
"Junior dad" è una canzone strana, anche se negli anni 70, quando gli artisti erano più liberi e creativi, non sarebbe sembrata tanto più strana di un album come "Low", una facciata di canzoni rock e un'altra di brani quasi sepolcrali suonati col sintetizzatore. E' strana e presenta diverse chiavi di lettura, sul piano musicale non meno che su quello del testo.
La prima parte è la canzone vera e propria, già di per sé anomala per gli standard attuali, quasi 10 minuti. Ed è un pezzo rock elettrico, in cui i Metallica suonano non come ciò che sono, una band metal, ma come la band di Lou Reed. Un bel pezzo, indubbiamente. Un tempo medio, dall'incedere solenne, sostenuto dalla potenza degli accordi e dai colpi secchi della batteria.
Ma sul finale (solo sul disco, non nella versione live), l'elettricità condensata sfuma, la batteria batte il tempo un'ultima volta e in pochi secondi la tensione si allenta, sfocia in una piana "ambient", altri 8 minuti di musica stavolta senza una parola, solo un'algida vibrazione elettronica, un orizzonte scarno ed essenziale, zen. Il suo colore è il bianco. Il suo messaggio è distacco. Forse è questa la chiave di lettura finale che Lou Reed vuole dare al disco (probabilmente definitivo) della sua vecchiaia. Oltre la delusione per la visione di ciò che la vecchiaia realmente è, corruzione e morte, la considerazione del nulla, l'accettazione, la pace, shanti, come si chiude il Wasteland di T.S. Eliot.
Molla gli ormeggi, lascia andare tutto. Mettiti comodo. Attraversa il fuoco passandoti la lingua sulle labbra.
Cosa c'è ancora da vedere, o da non vedere?

E una canzone così di questi tempi vale come un libro, è pura letteratura.

"Junior dad" live con i Metallica.


Lou Reed nel pieno della carriera (1974).

Sangue cattivo



Ad un certo punto iniziarono a diffondersi delle leggende.
Una di esse riguardava il virus t36, detto anche “Mauvais sang” (sangue cattivo). Era un virus che colpiva le persone che facevano l’amore senza amore. Nessun giornale, nessuna tv ne aveva parlato. Era una leggenda diffusa in rete, era l’effetto del passaparola di nuovi profeti visionari. Le autorità la trattavano come una sciocchezza da cui i sobri, razionali cittadini del mondo del XXI° secolo si sarebbero tenuti spontaneamente alla larga. Errore.

Ci furono atti di violenza contro le prostitute, i gay e gli adulteri. Ad Amsterdam chiuse definitivamente il quartiere a luci rosse. San Francisco e Los Angeles persero una buona fetta dei loro abitanti, grandi esodi nel deserto, morti collettive.
L’età dei primi rapporti sessuali in pochi mesi si alzò vertiginosamente e i più guardinghi pare fossero i maschi.

Qualcuno fece osservare che, contrariamente alle aspettative, la maggior parte delle vittime non apparteneva alla categoria delle persone “promiscue”. Erano perlopiù mogli e mariti. Membri di coppie monogame.

Una sera ne parlai con nostra figlia. Richard era andato a letto, andava a letto sempre più presto, ultimamente. Le dissi che fare l’amore era una cosa bellissima, la più bella del mondo. Non so cosa mi aveva preso. Non è il genere di discorsi che le madri fanno alle figlie adolescenti, non io almeno. Due giorni prima mi aveva confessato che pensava di prendere i voti. Io e Richard l’abbiamo cresciuta così, le abbiamo sempre detto che l’avremmo lasciata libera di fare le sue scelte e non volevamo rimangiarci tutto questo, ora. Solo, mi aveva rattristato. Non per la scelta in sé. Perché pensavo che fosse dettata da questi eventi nuovi. Che fosse il frutto delle sue paure.

Mi chiedevo anche quante scelte apparentemente “spirituali” non fossero dettate in fondo da un cattivo rapporto con il corpo. Dei santi mi avevano sempre attratto soprattutto quelli che prima avevano vissuto una vita dissoluta. Loro, almeno, sapevano che cosa ci andavano a perdere.

(omaggio a un film che non mi è piaciuto con attori bellissimi e una canzone strepitosa)

Milan Kundera, Edipo e...cosa dovrebbero fare


Ne "L'insostenibile leggerezza dell'essere" lo scrittore ceco Milan Kundera utilizza, attraverso uno dei personaggi del romanzo, il mito di Edipo, per mettere a fuoco il peso della responsabilità individuale, con riferimento alle conseguenze non desiderate di certe azioni. Il mito di Edipo lo conosciamo. Abbandonato dai genitori, i sovrani di Tebe, alla sua nascita, in seguito a una cattiva profezia, Edipo ritorna in patria da adulto e, senza conoscerne la vera identità, prima uccide il padre, per un banale alterco, poi sposa la madre, divenendo il nuovo re della città. Dopodiché, cominciano ad abbattersi su Tebe una serie di sciagure. Compresa la natura di tali eventi - il castigo divino per il parricidio e l'incesto - Edipo si acceca volontariamente e sceglie la strada dell'esilio.
Il personaggio di Kundera, Thomas, riprende il mito per stigmatizzare le responsabilità dei politici cechi che con il loro comportamento consegnarono il paese nelle mani dell'Urss. Thomas dice in sostanza: forse i comunisti cechi non volevano veramente abdicare in favore di Mosca, forse non avevano previsto l'invasione, i carrarmati russi a Praga, tuttavia le loro azioni a questo hanno portato. Non sono dunque interamente colpevoli, come non lo era Edipo quando causava la morte del padre e poi si congiungeva con la madre. Tuttavia, perché in un soprassalto di dignità non si accecano volontariamente e non lasciano la loro patria per l'esilio?
Il ragionamento sviluppato da Thomas è molto nobile e profondo. Se anche noi non commettiamo volontariamente le nostre colpe, non possiamo lasciare impuniti i nostri errori. Quale giudice può operare questa distinzione? La nostra coscienza. E' la nostra coscienza ad imporci l'automortificazione e l'uscita dalla città, una volta contemplati i risultati catastrofici (per la comunità) dei nostri atti.

Nella vita reale, ciò non accade mai. Forse viviamo in un'era molto lontana da quella nella quale venne concepito il mito di Edipo, narrato da Sofocle. Forse gli esseri umani non sono capaci di compiere gesti altrettanto significativi e paradigmatici di quelli dei protagonisti della tragedia. Nessun politico si acceca per autopunirsi dei suoi errori, nessun banchiere, nessun presidente di multinazionale va' in esilio dopo avere contemplato la distruzione di una famiglia, una città o uno stato a causa delle sue azioni.
Ho ripensato a questo passaggio del best seller di Kundera a proposito dell'attuale crisi economica. Una crisi che non è stata causata dai pensionati italiani o dai dipendenti pubblici greci, che oggi ne pagano il conto. Una crisi scaturita com'è noto da un bolla finanziaria, dal fallimento, nel 2008, di alcune banche di investimento americane, a causa di cattive, disinvolte, ciniche, sciagurate politiche finanziari. Quelle politiche che i neoliberisti - figli e nipoti della scuola di Chicago - sostengono a spada tratta da 30 anni a questa parte (Cipolletta nel suo libro fa risalire le responsabilità della crisi in realtà alla politica bellica degli Usa dopo l'11 settembre).
Ora, io penso che tutti i cittadini italiani siano disposti a fare dei sacrifici per salvare il loro paese. Molti di loro, tra l'altro, hanno approfittato di disposizioni oggettivamente inique (c'era un'epoca non lontana, diciamo l'epoca della Democrazia cristiana, in cui i dipendenti pubblici andavano in pensione dopo 15 anni di lavoro, ai giovani probabilmente sembrerà fantascienza, ma era proprio così).
Però, prima, non ci si dovrebbe attendere che coloro che hanno approfittato delle politiche finanziarie di cui sopra si bucassero gli occhi e lasciassero la città? Parliamo di chi si è arricchito grazie alle speculazioni, degli economisti che hanno sostenuto per anni questo sistema, degli stessi politici che lo hanno avallato. Parliamo di chi stava ai vertici della piramide del sistema capitalista attuale. Dopotutto, i leader comunisti , 20 anni fa, hanno fatto questa fine, quando non una fine peggiore (vedasi ad esempio Ceausescu).
Invece accade il contrario. I responsabili oggi governano la/le città. Chiedono di essere legittimati non al popolo che governano ma al Fondo monetario internazionale. Non solo non si accecano. Non chiedono nemmeno scusa.

Jeffrey Eugenides: La trama del matrimonio

"Non c'è felicità nell'amore, tranne che alla fine di un romanzo inglese". Questa una delle sentenze che corredano il nuovo romanzo di Jeffrey Eugenides, "La trama del matrimonio". Abbiamo anche una citazione dai Talking Heads (il libro è ambientato all'inizio degli '80), e molti, moltissimi rimandi ad altra letteratura, nonché ad uno dei temi che andavano per la maggiore in quegli anni, ovvero lo strutturalismo, con il suo corollario di Barthes, Derrida, Eco ecc.
Dopo "Le vergini suicide" (da cui la Coppola trasse il suo fortunato film) e dopo "Middlesex", bel romanzo, premiato, in cui lo scrittore esplora anche le sue origini greche, con qualche incomprensibile ingenuità (una narrazione in prima persona nella quale, ad un certo punto, vengono descritte in terza azioni e intenzioni di un personaggio che il narratore evidentemente non può vedere e nella cui mente non può ragionevolmente entrare), eccoci di nuovo alle prese con una delle tante incarnazioni del Grande romanzo americano. Io mi sono tuffato in queste pagine, come già prima in quelle di Franzen (che con De Lillo forma il trittico degli autori contemporanei che seguo di più), perché, stranamente, pur essendo affascinato da tutto ciò che è altro, altri paesi, altre culture (Africa, in primo luogo) nella narrazione cerco, come la protagonista di Eugenides, ciò che mi è più familiare. Cerco romanzi che parlino di me, in cui trovare delle conferme, o una migliore messa a fuoco di ciò che devo avere già sentito o provato o sperimentato in prima persona, almeno una volta. E trovo tutto questo non negli italiani ma negli americani, nei loro affreschi generazionali, nella loro straordinaria capacità di mettere a fuoco intere epoche attraverso storie avvincenti. Qui si parla di amore - amore ai tempi dell'università, quindi potremmo essere dalle parti del romanzo di formazione - e l'amore, da sempre, è il tema.
Il libro suggerisce, attraverso uno dei suoi personaggi, che il romanzo è nato proprio per raccontare matrimoni, e che dopo la messa in crisi di questa istituzione ha iniziato ad incontrare delle difficoltà. Tuttavia, qui non siamo in presenza della storia di un matrimonio ma di un amore a tre, nato in un college. Lei, ragazza di buona famiglia (ma non la classica famiglia borghese, una famiglia "scialla", diremmo oggi), innamorata dei libri, lui, ragazzo triste con sindrome maniaco-depressiva, l'altro lui, ragazzo triste con tendenze mistiche.
La trama la potete trovare descritta un po' dappertutto sul web, è una bella trama, semplice, diretta, vi divertirà. Vorrei però soffermarmi su alcuni dettagli, nei quali mi sono, per così dire, rispecchiato, e che credo siano paradigmatici di una generazione.
Innanzitutto, come ho già detto, è un romanzo pieno di libri e di autori. I protagonisti ne sono innamorati, come lo eravamo in molti, perdutamente, negli anni '80; uno di loro decide persino di partire per l'India con uno zaino pieno di volumi (e mica robetta, da Sant'Agostino a "L'imitazione di Cristo"). Sono ancora così importanti i libri? Lo sono, almeno all'università? Credo di no. Qui eravamo prima della rivoluzione informatica, semplicemente. E prima del dilagare del video. Un romanzo del genere ambientato ai giorni nostri dovrebbe essere pieno di password, chat, Blackberry, e-book, sms, citazioni estrapolate da Wiki, e poi di youtube, youporn, videoarte, installazioni ecc. Eppure...sì, c'è stata un'epoca in cui avere o non avere certi libri in una libreria faceva, almeno agli occhi di qualcuno, la differenza. Un'epoca in cui si potevano passare intere serate in osteria a discutere delle cose di cui i libri parlavano. Un'epoca in cui i libri potevano servire persino a sedurre, a fare innamorare. O a consolare. Anche quelli concepiti per tutt'altro scopo, come il famoso "Frammenti..." di Barthes.
E poi, lo strutturalismo, la linguistica, la semiotica, la decostruzione del testo. Ho orecchiato queste tematiche grazie agli studi di linguistica di mia moglie, ma essendo uno storicista, le guardavo con sospetto. Tuttavia, effettivamente, il dibattito lì girava. Arrivava persino nelle aule scolastiche, dove gli insegnanti invitavano sì a leggere il giornale, ma per analizzare strategie e stili, non per dibattere i contenuti. E oggi? Suppongo che da un lato tutti siamo diventati più smaliziati, pratichiamo a priori una decostruzione inconscia di tutto ciò che l'universo mediatico ci propone, prima di entrare nel merito e, semmai, concedere la nostra fiducia. Al tempo stesso, credo che nessun lettore di romanzi abbia più alcuna voglia (ma ce l'ha mai avuta?) di decostruire un testo, o di sostituire il lettore con il narratore, il che in fondo dimostra quanto fossero autoreferenziali certe teorie, quanto servissero a spingere le carriere accademiche, a scapito delle esistenze/esigenze reali di chi compra un romanzo (o lo prende a prestito in biblioteca).
Comunque sia, Eugenides è uno scrittore della vecchia guardia (pur essendo giovane). Racconta una storia, lo fa con dovizia di particolari, chiede al lettore capacità di immedesimazione. Scrive libri che invogliano ad andare avanti per vedere cosa succede nella pagina successiva. Libri per persone a cui piace passare il tempo in compagnia di storie di personaggi inventati raccontate con abilità (periodicamente leggo sui giornali dichiarazioni di tizi un po' snob che trovano questa passione una perdita di tempo, e invitano, semmai, ad appassionarsi alle storie vere, cioè alle biografie e ai reality. Li trovo sempre un po' malsani).

Eugenides racconta di situazioni e stati d'animo per i quali siamo passati tutti: le feste, i viaggi all'estero, il ricovero dell'amico in un reparto psichiatrico, il sesso fatto bene o malissimo, l'infatuazione per la ragazza/il ragazzo che ti tiene sulla corda ma vuole esserti solo amico/a, gli ambienti degli istituti di ricerca... Ma come ogni buon narratore illumina la materia da una angolazione particolare (che è poi quella che ha conosciuto in prima persona, essendo il college del libro quello stesso nel quale ha studiato). Così, tutto sembra non solo vero, ma più vero.
Come in Franzen, va detto, anche in Eugenides c'è molto divertimento fra le righe; poi c'è sofferenza, ovviamente, la sofferenza amorosa, quella più importante, nell'economia di una vita "normale", cioè una vita non devastata da traumi infantili irrecuperabili o eventi bellici (e fin quando non sopraggiungono le malattie, ovviamente).
La chiave, perciò, è il realismo, come direbbe Lou Reed, anche se qui non c'è il suo realismo truce, siamo pur sempre negli anni '80. E forse è proprio grazie al realismo che si riesce a leggere le pagine degli americani con tanto piacere (De Lillo fa un po' eccezione: lì le cose si complicano, e lì no, in effetti non si ride mai. In compenso, c'è un registro narrativo forse più alto, più sperimentale, perlomeno in "Underworld").
Nel suo romanzo Eugenides semina molte chicche. La parte di cui lo scrittore dichiara di essere - forse giustamente - più orgoglioso, è quella che racconta la progressione della malattia mentale, della psicosi maniaco-depressiva; in queste pagine Eugenides sembra voler rivaleggiare con il Franzen de "Le correzioni", che entrò con sbalorditiva sicurezza nella testa di un malato di alzheimer (Franzen, per la cronaca, è rimasto imbattuto). Ma ci sono anche altre cosette. Lo smarrimento dell'americano a Parigi, l'imbarazzante integralismo proprio di una certa stagione della vita (in questo caso, incarnato da una giovane femminista, che trova censurabile leggere Hemingway), e, ad un certo punto, anche Peter Handke, e la cosa mi ha fatto un po' sorridere perché per iniziare "La trama del matrimonio" ho messo momentaneamente da parte proprio un libro di Handke. Handke, nella fattispecie "Infelicità senza desideri", come il simbolo dello scrittore concettuale amato dagli strutturalisti, del quale si indagano le strategie narrative, gli oscuri moventi criptoletterari.
Beh, Handke è agli antipodi da questo genere di narrativa. Ho passato, recentemente, ore serene (se non felici) con "Lento ritorno a casa". Una serenità data forse dal potere ipnotico (soporifero?) di certe pagine, di certe infinite descrizioni di paesaggi, di nuovo americani. Nell'era post-strutturalista, si possono leggere cose così lontane tra loro senza avvertire alcuna contraddizione. Nel supermercato della cultura contemporanea, Handke può anche stare vicino a Eugenides.

Ma: e l'amore, alla fine, come ne esce? Non sono ancora arrivato in fondo alle 478 pagine del romanzo (edito in Italia da Mondadori, nella traduzione di Katia Bagnoli) ma la mia impressione è che verrà confermata l'affermazione di Amy Winehouse: un gioco in perdita.

P.s. mi accorgo ora che in questa recensione ho parlato forse più di me che del romanzo. Allora, questa è una recensione decostruzionista.