Un po' di foto del 2010
California dreamin' (in Sicilia).
Bath.
Me, beginning of the year.
Fiume Zambesi.
In Uganda.
Bath, again.
Il cielo sopra Caia (Mozambico).
Una costa conosciuta che si allontana
(raccontino)
La guardava cantare e vedeva in lei la sua stessa arroganza, tipica dei timidi, la stessa noncurante ambizione, il talento mescolato ad una naturale insofferenza. Vedeva l'uomo trent'anni prima, i capelli sul viso, a proteggersi e a sfidare, solo che il suo talento all'epoca non si esprimeva nel canto ma nella scrittura.
Si vedeva nell'atto di ritirare un premio con la sinistra infilata nella tasca, si vedeva con la camicia azzurra fuori dai pantaloni. Dare del tu ai professori. Andare in giro da solo per strada mangiando una mela o fumando precocemente.
Certo, c'erano anche le differenze. Nel modo di vestire, di impiegare il tempo, lui ne aveva avuto molto di più, a disposizione, anche per annoiarsi. Nei modelli da imitare. Forse, in un diverso stadio della maturità.
Sapeva però che queste sono cose destinate a evaporare, lasciando sul fondo l'intima essenza, quel nucleo duro e inattaccabile che non si scioglie, le propensioni alla felicità e all'infelicità, i modi di reagire, insomma, ciò che conta, il precipitato, la base, ciò che rimane in cima alla forchetta.
La vedeva guardarsi attorno, infastidita che una compagna avesse stonato. Ridere con la spavalderia dei ragazzi per le formalità del mondo adulto. Cercare con gli occhi la complicità di un'amica.
Guardava quell'apparizione sul palco, quella voce solista che spiccava sulle altre, come si guarda la riva di una costa conosciuta che lentamente si allontana, stupendosi del tempo passato e passato assieme, stupendosi di più ancora per il fatto che lui, lì, non si sentiva cambiato affatto da quando la portava in giro sulla carrozzella, sotto ai cieli siderali di un altro inverno. O forse non è così, è che i cambiamenti lenti, che sgocciolano giorno dopo giorno, sono come l'agonia dell'aragosta in pentola, li si avverte troppo tardi o troppo alla fine.
La guardava cantare e vedeva in lei la sua stessa arroganza, tipica dei timidi, la stessa noncurante ambizione, il talento mescolato ad una naturale insofferenza. Vedeva l'uomo trent'anni prima, i capelli sul viso, a proteggersi e a sfidare, solo che il suo talento all'epoca non si esprimeva nel canto ma nella scrittura.
Si vedeva nell'atto di ritirare un premio con la sinistra infilata nella tasca, si vedeva con la camicia azzurra fuori dai pantaloni. Dare del tu ai professori. Andare in giro da solo per strada mangiando una mela o fumando precocemente.
Certo, c'erano anche le differenze. Nel modo di vestire, di impiegare il tempo, lui ne aveva avuto molto di più, a disposizione, anche per annoiarsi. Nei modelli da imitare. Forse, in un diverso stadio della maturità.
Sapeva però che queste sono cose destinate a evaporare, lasciando sul fondo l'intima essenza, quel nucleo duro e inattaccabile che non si scioglie, le propensioni alla felicità e all'infelicità, i modi di reagire, insomma, ciò che conta, il precipitato, la base, ciò che rimane in cima alla forchetta.
La vedeva guardarsi attorno, infastidita che una compagna avesse stonato. Ridere con la spavalderia dei ragazzi per le formalità del mondo adulto. Cercare con gli occhi la complicità di un'amica.
Guardava quell'apparizione sul palco, quella voce solista che spiccava sulle altre, come si guarda la riva di una costa conosciuta che lentamente si allontana, stupendosi del tempo passato e passato assieme, stupendosi di più ancora per il fatto che lui, lì, non si sentiva cambiato affatto da quando la portava in giro sulla carrozzella, sotto ai cieli siderali di un altro inverno. O forse non è così, è che i cambiamenti lenti, che sgocciolano giorno dopo giorno, sono come l'agonia dell'aragosta in pentola, li si avverte troppo tardi o troppo alla fine.
Amore nel pomeriggio
(raccontino)
L'amore nel pomeriggio era diverso rispetto a quello della notte e diverso anche rispetto a quello della mattina. La luce di marzo entrava nella camera passando attraverso i doppi vetri e le tende, era la luce lattiginosa di marzo, passava attraverso le nuvole, spandeva chiarore diffuso, la luce di marzo li rivelava.
Nella camera entravano anche i suoni. Era la vita della città di fuori, tutt'attorno, si allargava in cerchi concentrici, rifrangendosi sulle pendici delle montagne: due donne che si salutavano in cortile, l'autobus, un colpo di clacson, di giovedì il mercato di strada che smobilita con rumore di cassette, di pali di ferro caricati su camion e furgoni, di motori che fanno manovra in spazi limitati. Se avesse fatto attenzione, se avesse avuto gli stessi poteri di Freccia Nera, avrebbe potuto sentire persino il rombo remoto dei treni della zona industriale, oltre il fiume e il cavalcavia dell'autostrada, il tichettio delle tastiere dei computer negli uffici provinciali, l'allegro vociare dei bambini all'uscita dell'asilo e tutto questo significava qualcosa per lui, e qualcosa di diverso per lei.
Lui avrebbe voluto conoscere i suoi suoni, quelli che lei aveva udito da bambina, per anni, quando si svegliava, quando la mamma la vestiva e poi quando aveva imparato a vestirsi da sola, ma non è la stessa cosa, vivere o farselo raccontare, un pensiero irragionevole; per un istante, prima, aveva desiderato essere lei, aveva desiderato acutamente poter rinascere in lei e rivivere la sua vita in quel corpo, da zero, dall'inizio e attraverso le sue infinite scoperte. Nell'arco della bocca, nella curva del collo, nell'incavo del grembo, fino alla punta dei piedi.
A volte gli sembrava che tutta la città si affacciasse, che non fossero soli. Poi si chinava e non ci pensava più, non pensava più a niente tranne a quello che stava facendo, un gesto come...come portare alla bocca il piatto della vita, sì, magari fossero sue quelle parole, invece era certo di averle lette in un libro, ma le sentiva come sue, del resto a questo servono le parole nei libri, sono parole che rivelano, come un certo tipo di luce.
A volte sentiva passi scendere le scale del condominio, di persona anziana, un piede davanti all'altro, oppure voci di bambini impazienti nel salire, stavano al terzo piano e non c'era ascensore. Poi il tempo accelerava. Tutto era liquido, accecante come un lampo. Li passava entrambi.
Più tardi, le cose sembrano sempre diverse rispetto alle ore della notte, quando l'unica luce ad illuminare la stanza è quella della lampada sul comodino. Oggetti riposti in cima all'armadio, un candelabro, delle coppe, un busto di Cristo...
Sdraiati, pelle a pelle, uno nelle braccia dell'altra, sapeva che quelle cose erano lì da trent'anni, sapeva anche che per lei rappresentavano qualcosa di diverso che per lui o forse lei non le vedeva neanche, teneva gli occhi chiusi e ad un certo punto sentiva che le stava schiacciando il braccio, si sollevava per permetterle di sfilarlo da dietro la schiena ma lei non lo sfilava, solo lo sistemava diversamente, lui le posava una mano sul seno, il cuore batteva nella coppa della sua mano.
Se hanno tempo di restare, se parlano, ridono o stanno in silenzio, lentamente ombre si addensano negli angoli. La sera porta altri rumori e se per caso si addormentano - o anche se rimangono immobili - l'ombra alla fine li nasconde.
L'amore nel pomeriggio era diverso rispetto a quello della notte e diverso anche rispetto a quello della mattina. La luce di marzo entrava nella camera passando attraverso i doppi vetri e le tende, era la luce lattiginosa di marzo, passava attraverso le nuvole, spandeva chiarore diffuso, la luce di marzo li rivelava.
Nella camera entravano anche i suoni. Era la vita della città di fuori, tutt'attorno, si allargava in cerchi concentrici, rifrangendosi sulle pendici delle montagne: due donne che si salutavano in cortile, l'autobus, un colpo di clacson, di giovedì il mercato di strada che smobilita con rumore di cassette, di pali di ferro caricati su camion e furgoni, di motori che fanno manovra in spazi limitati. Se avesse fatto attenzione, se avesse avuto gli stessi poteri di Freccia Nera, avrebbe potuto sentire persino il rombo remoto dei treni della zona industriale, oltre il fiume e il cavalcavia dell'autostrada, il tichettio delle tastiere dei computer negli uffici provinciali, l'allegro vociare dei bambini all'uscita dell'asilo e tutto questo significava qualcosa per lui, e qualcosa di diverso per lei.
Lui avrebbe voluto conoscere i suoi suoni, quelli che lei aveva udito da bambina, per anni, quando si svegliava, quando la mamma la vestiva e poi quando aveva imparato a vestirsi da sola, ma non è la stessa cosa, vivere o farselo raccontare, un pensiero irragionevole; per un istante, prima, aveva desiderato essere lei, aveva desiderato acutamente poter rinascere in lei e rivivere la sua vita in quel corpo, da zero, dall'inizio e attraverso le sue infinite scoperte. Nell'arco della bocca, nella curva del collo, nell'incavo del grembo, fino alla punta dei piedi.
A volte gli sembrava che tutta la città si affacciasse, che non fossero soli. Poi si chinava e non ci pensava più, non pensava più a niente tranne a quello che stava facendo, un gesto come...come portare alla bocca il piatto della vita, sì, magari fossero sue quelle parole, invece era certo di averle lette in un libro, ma le sentiva come sue, del resto a questo servono le parole nei libri, sono parole che rivelano, come un certo tipo di luce.
A volte sentiva passi scendere le scale del condominio, di persona anziana, un piede davanti all'altro, oppure voci di bambini impazienti nel salire, stavano al terzo piano e non c'era ascensore. Poi il tempo accelerava. Tutto era liquido, accecante come un lampo. Li passava entrambi.
Più tardi, le cose sembrano sempre diverse rispetto alle ore della notte, quando l'unica luce ad illuminare la stanza è quella della lampada sul comodino. Oggetti riposti in cima all'armadio, un candelabro, delle coppe, un busto di Cristo...
Sdraiati, pelle a pelle, uno nelle braccia dell'altra, sapeva che quelle cose erano lì da trent'anni, sapeva anche che per lei rappresentavano qualcosa di diverso che per lui o forse lei non le vedeva neanche, teneva gli occhi chiusi e ad un certo punto sentiva che le stava schiacciando il braccio, si sollevava per permetterle di sfilarlo da dietro la schiena ma lei non lo sfilava, solo lo sistemava diversamente, lui le posava una mano sul seno, il cuore batteva nella coppa della sua mano.
Se hanno tempo di restare, se parlano, ridono o stanno in silenzio, lentamente ombre si addensano negli angoli. La sera porta altri rumori e se per caso si addormentano - o anche se rimangono immobili - l'ombra alla fine li nasconde.
La carta e il territorio
Sono un estimatore di Michel Houellebecq e sono andato subito a leggermi il suo ultimo romanzo, interessante fin dal titolo, "La carta e il territorio".
La carta, anzi le carte, sono quelle della Michelin, che proiettano un giovane artista, Jed Martin, nell'olimpo della celebrità. Il romanzo ruota attorno a questo personaggio - tipico, solitario anti-eroe houellebecqiano - seguito, com'è costume dello scrittore francese, praticamente dalla nascita alla morte, forse perché, è cosa nota, non si può dire di nessuno che abbia avuto una vita fortunata fin quando non è spirato.
Il contraltare di Jed Martin non è rappresentato tanto dalla sua amante - bellissima manager russa in carriera che ad un certo punto lo molla perchè il lavoro la richiama in patria (l'amore, per Houellebecq, è sempre scacco e sconfitta, in questo caso una resa senza condizioni alle logiche dell'economia globalizzata) - ma dallo stesso scrittore, ovvero Houellebecq, del quale Jed Martin decide di realizzare un ritratto. Nella parte finale del romanzo Houellebecq viene ritrovato morto - diciamo di più, ucciso in maniera raccapricciante, fatto a striscioline con un attrezzo cururgico e sparso sul pavimento di casa a comporre una sorta di quadro a la' Pollock - il che innesca una digressione "gialla" fino alla scoperta dell'assassino (che non è un estremista islamico, come forse qualcuno si aspetterebbe visti i trascorsi dello scrittore...).
L'epilogo è affidato nuovamente a Jed Martin, che del tutto disilluso sulle possibilità offerte dai rapporti umani in genere, e parimenti del tutto disinteressato agli effetti del successo, si lascia invecchiare in una sorta di splendido isolamento, lasciando dietro di sé, alla sua morte, un'ultima opera, dedicata alla natura che circonda la sua abitazione. C'è spazio anche per un ultimo sguardo gettato dall'artista, ormai molto anziano, sui cambiamenti intervenuti nel frattempo nella società: forse non l'apocalisse che si aspettava, invece un lento slittamento, la colonizzazione delle campagne da parte di persone che di radici piantate nella terra non ne hanno, giovani new age, turisti "verdi" ecc.
C'è chi ha trovato questo romanzo (premio Goncourt in Francia) più debole dei precedenti (perlomeno di alcuni di essi), meno riuscito anche sul piano formale. Personalmente mi semba un'opera felice, che presenta elementi di continuità con il passato ma anche alcune discontinuità. Manca ad esempio la particolarissima "fantascienza" che caratterizzava "Le particelle elementari" e anche l'ultimo "La possibilità di un'isola". Manca il sesso, che condiva abbondantemente le opere del passato, sia come elemento salvifico o perlomeno consolatorio (minato dall'incedere delle età e dunque caduco), sia come metafora dell'incomunicabilità (anche generazionale).
C'è, invece, di nuovo il rapporto padre-figlio, sempre straziante; c'è la vecchiaia in quanto anti-vita, posto che la vita, nel mondo moderno, è tutt'uno con giovinezza, salute, corpo, disponibilità, ambizione, fun (o con le loro rappresentazioni). C'è l'eutanasia, nulla di romantico, nulla a che vedere con un diritto faticosamente conquistato: una pratica discreta, asettica, anch'essa asservita alle logiche del mercato. Ci sono i marchi, i brand. Ci sono, come sempre, interessanti digressioni cultural-filosofiche, qui legate al mondo dell'arte, soprattutto; evidentemente l'autore francese se le può permettere (come se le poteva permettere Kundera), dal momento che i suoi libri comunque vendono e quindi lettori ne hanno. Per fortuna.
Torno su una delle peculiarità dei romanzi di Houellebecq: seguire i personaggi durante tutto l'arco della loro vita. Nel suo penultimo lavoro il protagonista (in realtà un clone) esce dallo spazio chiuso e protetto nel quale alcuni eletti, in un ipotetico futuro, vivono, in assoluta solitudine (anche sessuale), per addentrarsi in un mondo popolato di bruti e arso dagli effetti dei cambiamenti climatici. L'epilogo non era consolatorio: arrivato sulla riva di un mare semiprosciugato, il viandante non trovava nulla, nessuna risposta, nessuna compagnia. Avrebbe probabilmente atteso di disseccarsi lì, sul bagnasciuga chimico.
In questo "La carta e il territorio" la fine è più interlocutoria: la solitudine dell'uomo è sempre dominante, l'impossibilità dell'amore una certezza, il disincanto con cui i diversi personaggi vengono, ognuno a suo modo, a patti, indiscutibile; ma ci rimangono i video girati da Jed Martin, per anni, meticolosamente, nei boschi all'interno della sua tenuta. Il trionfo di un vegetale comunque estraneo alla vita così come noi la conosciamo ma che in qualche modo, testardamente, è (e ricordiamoci che Houellebecq è un estimatore di Lovecraft, altro sguardo lanciato su un universo parallelo caotico ed estraneo).
Ed ecco l'incipit:
“Da qualche settimana si era messo a parlare alla sua caldaia. E la cosa più inquietante – ne aveva preso coscienza due giorni prima – era che adesso si aspettava che la caldaia gli rispondesse. L’apparecchio produceva è vero rumori sempre più vari: gemiti, ronzii, schiocchi, sibili di tonalità e di volume differenti; ci si poteva aspettare che un giorno o l’altro arrivasse al linguaggio articolato. Era, insomma, la sua più vecchia compagna.”
Non sono affatto ironico quando scrivo “Qualche volta aveva l’ipermercato tutto per sé – e gli pareva fosse un’approssimazione abbastanza buona della felicità”. In senso letterale deve essere intesa questa frase. Il luogo del consumo è ambiguo come ogni residuo mitologico. E’ la favola che l’umano continua a desiderare: quella che fa paura, dove c’è il lupo.
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