(sul "Trentino", qualche giorno fa, scritto una settimana prima che iniziassero i disordini in Libia. Col cuore, stasera, sono in piazza a Tripoli).
Quanto è successo nei giorni scorsi in Egitto e in Tunisia non può che essere considerato con favore da quanti hanno a cuore i valori della democrazia. Si è trattato – per quanto se ne sa - di “rivoluzioni” dai caratteri piuttosto nuovi, specie per l’area Nordafricana e Medio Orientale: relativamente incruente, popolari e nate “dal basso”, non fomentate da forze riconducibili all’integralismo islamico. Anche le proteste che stanno emergendo in Algeria ci mostrano un paese diverso da quello di vent’anni fa, dove alle elezioni del 1991 e al successivo colpo di stato dell’esercito era seguita l’ondata di violenza scatenata dal movimento ultrafondamentalista del Gia.
L’auspicio è dunque che la costruzione della democrazia faccia il suo corso, dando soddisfazione alle legittime aspirazioni della società civile, in particolare dei giovani e delle donne che abbiamo visto scendere in piazza in questi giorni per denunciare i mali della repressione e della corruzione.
Detto questo, vale la pena forse di aggiungere qualche ulteriore elemento di giudizio, partendo dal “fattore sorpresa” che contraddistingue le cadute rapidissime e quasi simultanee di Mubarak e di Ben Ali. Sorpresa in primo luogo per l’opinione pubblica occidentale che ha sempre guardato ai due paesi come a dei paradisi turistici retti da autocrazie tutto sommato “soft”, legittimate assai debolmente, sul piano democratico, da elezioni-farsa, di fatto dei plebisciti, e tuttavia in grado di garantire un sostanziale equilibrio sia sul piano interno sia soprattutto su quello internazionale. E, nella sostanza, è pur vero che Mubarak non può essere associato sic et simpliciter ad esempio a un Gheddafi, il quale ha fomentato per anni il terrorismo internazionale nonché un buon numero di conflitti nello stesso scacchiere africano (sarà curioso a questo proposito vedere quale sarà l’atteggiamento dell’Italia e in particolare del nostro presidente del Consiglio, se il vento della democrazia, com’è auspicabile, comincerà a soffiare anche su Tripoli).
Hosni Mubarak, già eroe della guerra del Kippur, ha governato per trent’anni l’Egitto in maniera sì autoritaria, senza mai abolire lo stato di emergenza in vigore dalla morte del suo predecessore Sadat, ma conservando buoni rapporti con Israele e destreggiandosi abilmente nelle intricate vicende delle Guerre del Golfo (L’Egitto si schierò contro Saddam Hussein nel 1991, dopo l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, ma si rifiutò di appoggiare la coalizione guidata da Usa e Gran Bretagna nel 2003). La sua caduta, a meno di prossime, clamorose rivelazioni, sembra dovuta pressoché esclusivamente a fattori interni – la crisi economica, il nepotismo sfacciato, il malcontento dei giovani - e molto poco, o forse per nulla, a pressioni esterne. Questo deposita a favore della causa di una “rivoluzione autentica”, al tempo stesso rivelando la volatilità delle relazioni internazionali e l’ipocrisia della formula coniata qualche anno fa dai neocon americani: “esportare la democrazia”. Se gli egiziani sapranno darsi un governo democratico, stando alle vicende di questi giorni, sarà esclusivamente per merito loro.
Il ragionamento vale anche per la Tunisia di Zine El Abidine Ben Ali, che nel 1987 aveva esautorato, in maniera peraltro non traumatica, il “padre dell’indipendenza” Habib Bourguiba, ormai senescente. La Tunisia di Ben Ali è stata, per più di vent’anni, un paese filoccidentale, aperto agli investitori stranieri, in grado di conseguire qualche risultato significativo anche sul piano della lotta alla povertà (nella misura in cui ciò è possibile nell’era della globalizzazione). Un paese del quale i dissidenti denunciavano il clima repressivo ma che non godeva complessivamente di una pessima reputazione, e che certo, fino ai primi di gennaio, non sembrava certo prossimo ad un cambiamento così improvviso,
Le vicende parallele di Mubarak e Ben Ali sembrano confermare una regola che, in politica, dovrebbe essere sempre tenuta presente: quando il potere viene tenuto troppo a lungo nelle stesse mani fatalmente si corrompe, degenera. Si guardi, per rimanere in Africa, anche al caso Mugabe: negli anni ’80, dopo la nascita dello Zimbabwe sulle ceneri della Rhodesia del sud, era un leader rispettato, a cui si perdonava facilmente di essersi sbarazzato senza tanti complimenti dell’opposizione; oggi, dopo trent’anni di governo, viene riconosciuto quasi unanimemente come un dittatore che ha portato il suo paese alla catastrofe. Del resto, forse la stupefacente caduta, nei primi anni ’90, dei partiti che avevano retto per tanto tempo le sorti della Prima Repubblica in Italia (Dc in testa), è lì a dimostrare che la regola del rinnovamento e dell’alternanza nella gestione del potere vale non solo per i regimi autoritari ma anche per quelli democratici.
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