Unreal city


A volte capita di guardare alle cose conosciute in maniera diversa. A volte le cose si svelano, dietro al reale, come avrebbe scritto Ginsberg.
La mia città. Sono passato per questa strada migliaia di volte, ad ogni ora del giorno e a volte della notte. Non so nemmeno come si chiami, via Dogana, credo, almeno per un tratto, via della Stazione sarebbe la cosa più logica. Poi ieri sera.
Pensate ad una via poco illuminata, come altre, qui, luci gialle, all'esterno dei palazzi pubblici. Non deserta, anche se ormai quasi spopolata: ci sono i viaggiatori che escono dalle due stazioni (quella dei treni, stile razionalista, notevole con le sue linee rette e i suoi angoli molli, ma trascurata come tanti edifici statali, e poi quella degli autobus, più anonima), ci sono ombre furtive qui e là e studenti e una bellissima ragazza in minigonna, soprabito e calze bianche che attraversa la strada con gli auricolari dell'ipod nelle orecchie. Non gli impiegati provinciali, il grande palazzo asburgico ora deserto (come quello delle Poste, i pacchi dormono, le buste sospirano, le lettere d'amore fremono in attesa di essere consegnate e invidiano le email). Non più le persone in attesa alle fermate degli autobus. In compenso i ragazzi del centro sociale decorato con uno splendido murales ferino che rimuginano massimi sistemi, brindano a rivoluzioni, vivono la stagione migliore della loro vita.
Ma che fantasmagoria questa spledida pieve romanica, fra le due stazioni, più in basso rispetto al livello della strada, nel centro di un cortile, un'oasi rurale assediata dagli altoparlanti e dai binari, superato il baracchino della verdura e dei cocchi, chiuso, adesso, spenta la bella insegna gialla che lo sormonta dopo il tramonto! Affacciata sul parco che tutti evitano, perché pare sia pericoloso, perché ogni tanto scoppia una rissa o arrestano qualche spacciatore, ma a me non fa paura, un'oca gigante di giunchi appoggiata all'erba del prato, sotto alla sua pancia a volte gli stranieri che bivaccano, si riparano, se piove, e oltre il laghetto con le oche vere (dove andranno d'inverno?) il Family monument, che non piace a nessuno, specie ai progressisti perché pensano sia la glorificazione della famiglia standard borghese (marito, moglie, due figli, cane)e invece per me è un'opera postmoderna come le lattine di zuppa di Warhol, e lì, piantato in mezzo a quell'umanità senza casa né famiglia, è una presenza provocatoria e straniante.
Luci intermittenti dei semafori, tendenti al rosso. La mole dell'ostello della gioventù proprio in fondo, dove la strada muore in un incrocio. Proseguendo entri come coltello nel burro nel centro storico, a destra una sala giochi, un supermercato, una torre medioevale a chiudere la prospettiva, tutto il mix di vecchio e nuovo, o quasi-nuovo, perché non c'è nulla di nuovo-nuovo, non architetture ardite, c'è il nuovo delle nostre città, gli anni 30 e gli anni 60, quel nuovo-non nuovo che lascia sempre un po' perplessi, che stona nel vecchio per il quale invece tutti smaniano, gli europei sono così, diceva il mio amico brasiliano, "noi invece se dobbiamo far spazio a un centro commerciale spianiamo con vigore".
Attraverso la strada. L'oblò della luna. Insegna al neon. Respiro la primavera. Qualcuno starà facendo l'amore, adesso, qualcuno aspetta la pioggia (B. Dylan).
Sento tanto spazio sopra e intorno a me. Spengo il blackberry. Sono quasi arrivato.

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