Un amico, Lorenzo Rotondi, è stato a Paganica lunedì sera con la colonna mobile della protezione civile trentina. Questa è la sua testimonianza, che pubblico volentieri, perché mi sembra molto bella, sincera e piena di umanità.
Erano le nove di un lunedì qualsiasi, almeno così pensavo finché non mi sono reso conto appieno di quello che era successo poche ore prima, nel cuore della notte, tra le montagne dell’Abruzzo. Un rumore sordo, la terra che trema e centinaia di vite che se ne vanno in mezzo alle rovine di paesi e città. In ufficio il capo mi dice di preparare la valigia e andare al seguito dei soccorsi trentini, in partenza entro poche ore, in mattinata. Devo andare a fare il mio lavoro: documentare quello che è successo.
E’ cominciata così un’esperienza umana che non dimenticherò e una lezione di vita veramente preziosa. Me l’hanno offerta gli uomini della protezione civile trentina e in particolare i Vigili del Fuoco che mi hanno dato un passaggio e con cui ho condiviso buona parte del tempo.
E’ stato un viaggio lungo e lento perché i pesanti camion dell’autocolonna non potevano superare gli ottanta all’ora e spesso dovevano fermarsi per fare il pieno. Già prima di partire mi ha colpito la capacità di decidere al volo quali mezzi inviare, quali attrezzature portare e quanti uomini. Ma questo, alla fine, è il risultato di tanta esperienza, di protocolli collaudati. La lezione vera doveva ancora arrivare.
Per tutto il tempo la radio e le testimonianze dei primi a giungere sul posto facevano rimbalzare fino a noi le prime notizie. Ogni volta che arrivava un aggiornamento si facevano sempre più cupi i contorni della tragedia vissuta dalla popolazione abruzzese. E’ il terremoto, il ruggito della terra, e non dà scampo.
Mentre stiamo per arrivare ci pensa il tempo a dare al paesaggio tinte cupe, un ché di maligno. Ci accoglie un violento temporale e la prima cosa che ti viene in mente è che ci mancava proprio questo; non bastavano i morti, le case sbriciolate, la paura, il freddo.
Dopo dieci ore di strada siamo a Paganica che è ormai notte. E’ buio ma, per fortuna, almeno ha smesso di piovere. Ed è a questo punto che ricevo la mia lezione. La macchina dei soccorsi si mette subito in azione. Qualcuno a montare il campo e gli altri subito a scavare tra le macerie a Onna, uno dei centri più colpiti.
Dopo un viaggio che a noi, persone normali, scendendo dalla macchina fa dire “Che stanco, per fortuna sono arrivato, non vedo l’ora di sdraiarmi un po’ e riposare”, ho visto questi uomini indossare le tute da lavoro, infilare in testa un elmetto e arrampicarsi sui cumuli di sassi in cerca dei sopravvissuti.
Ingenuamente ho chiesto a uno di loro “Ma iniziate subito o aspettate domattina”. “Ci hanno ordinato di iniziare subito – mi ha risposto un giovane vigile – e comunque meglio così. Chi se la sentirebbe di andare a dormire sapendo che là sotto ci sono delle persone”.
Senza lagnarsi o avanzare riserve si sono preparati veloci e in silenzio, hanno preso i ferri del mestiere e ascoltato le disposizioni dei responsabili. Poi sono spariti, inghiottiti dalla distesa di palazzi sventrati, muri crollati, calcinacci, ferri da armatura, macchine sfasciate, effetti personali, fango.
Li ho rivisti la mattina dopo. Hanno lavorato tutta la notte. I più fortunati hanno riposato un paio d’ore. Sono ancora in piena attività. Alfio, il caposquadra, uno dei primi a intervenire, mi accoglie nella sala operativa del campo con un sorriso. Chiede a me come va, se sono riuscito a riposare un pò. Intanto, con i suoi colleghi, aiuta a coordinare gli interventi delle squadre di vigili del fuoco che continuano a partire a arrivare. C’è ancora da scavare, ci sono abitazioni da controllare, c’è da finire di completare il campo perché al più presto possa dare sollievo alla popolazione, c’è da rispondere alle persone che si presentano a chiedere aiuto, c’è da dare conforto a chi ha bisogno anche di una buona parola.
Alfio e i suoi colleghi si muovono con solerzia ma sono tranquilli, ti trasmettono calma. Si fanno carico di drammi umani con il tono e l’approccio giusti, decisi ma garbati. Come la sera prima mi danno sempre l’impressione di sapere esattamente cosa c’è da fare. Intanto nel campo continua febbrile l’attività e io penso che se un giorno dovesse capitare a me vorrei che fossero proprio loro a venire ad aiutarmi.
E’ cominciata così un’esperienza umana che non dimenticherò e una lezione di vita veramente preziosa. Me l’hanno offerta gli uomini della protezione civile trentina e in particolare i Vigili del Fuoco che mi hanno dato un passaggio e con cui ho condiviso buona parte del tempo.
E’ stato un viaggio lungo e lento perché i pesanti camion dell’autocolonna non potevano superare gli ottanta all’ora e spesso dovevano fermarsi per fare il pieno. Già prima di partire mi ha colpito la capacità di decidere al volo quali mezzi inviare, quali attrezzature portare e quanti uomini. Ma questo, alla fine, è il risultato di tanta esperienza, di protocolli collaudati. La lezione vera doveva ancora arrivare.
Per tutto il tempo la radio e le testimonianze dei primi a giungere sul posto facevano rimbalzare fino a noi le prime notizie. Ogni volta che arrivava un aggiornamento si facevano sempre più cupi i contorni della tragedia vissuta dalla popolazione abruzzese. E’ il terremoto, il ruggito della terra, e non dà scampo.
Mentre stiamo per arrivare ci pensa il tempo a dare al paesaggio tinte cupe, un ché di maligno. Ci accoglie un violento temporale e la prima cosa che ti viene in mente è che ci mancava proprio questo; non bastavano i morti, le case sbriciolate, la paura, il freddo.
Dopo dieci ore di strada siamo a Paganica che è ormai notte. E’ buio ma, per fortuna, almeno ha smesso di piovere. Ed è a questo punto che ricevo la mia lezione. La macchina dei soccorsi si mette subito in azione. Qualcuno a montare il campo e gli altri subito a scavare tra le macerie a Onna, uno dei centri più colpiti.
Dopo un viaggio che a noi, persone normali, scendendo dalla macchina fa dire “Che stanco, per fortuna sono arrivato, non vedo l’ora di sdraiarmi un po’ e riposare”, ho visto questi uomini indossare le tute da lavoro, infilare in testa un elmetto e arrampicarsi sui cumuli di sassi in cerca dei sopravvissuti.
Ingenuamente ho chiesto a uno di loro “Ma iniziate subito o aspettate domattina”. “Ci hanno ordinato di iniziare subito – mi ha risposto un giovane vigile – e comunque meglio così. Chi se la sentirebbe di andare a dormire sapendo che là sotto ci sono delle persone”.
Senza lagnarsi o avanzare riserve si sono preparati veloci e in silenzio, hanno preso i ferri del mestiere e ascoltato le disposizioni dei responsabili. Poi sono spariti, inghiottiti dalla distesa di palazzi sventrati, muri crollati, calcinacci, ferri da armatura, macchine sfasciate, effetti personali, fango.
Li ho rivisti la mattina dopo. Hanno lavorato tutta la notte. I più fortunati hanno riposato un paio d’ore. Sono ancora in piena attività. Alfio, il caposquadra, uno dei primi a intervenire, mi accoglie nella sala operativa del campo con un sorriso. Chiede a me come va, se sono riuscito a riposare un pò. Intanto, con i suoi colleghi, aiuta a coordinare gli interventi delle squadre di vigili del fuoco che continuano a partire a arrivare. C’è ancora da scavare, ci sono abitazioni da controllare, c’è da finire di completare il campo perché al più presto possa dare sollievo alla popolazione, c’è da rispondere alle persone che si presentano a chiedere aiuto, c’è da dare conforto a chi ha bisogno anche di una buona parola.
Alfio e i suoi colleghi si muovono con solerzia ma sono tranquilli, ti trasmettono calma. Si fanno carico di drammi umani con il tono e l’approccio giusti, decisi ma garbati. Come la sera prima mi danno sempre l’impressione di sapere esattamente cosa c’è da fare. Intanto nel campo continua febbrile l’attività e io penso che se un giorno dovesse capitare a me vorrei che fossero proprio loro a venire ad aiutarmi.
Lorenzo Rotondi
3 commenti:
Certo, molto umana. Cosa ne pensi del discorso fatto in rete da alcuni blogger, che sono sul campo e sono abbastanza affidabili, riguardo il numero sottostimato di morti. Parlano di 1000 morti, parlano di morti invisibili, tipo i clandestini, che anche da morti si fingono di non vedere? C'è del vero?
Non ho elementi per giudicare. Però che dei morti clandestini, per una ragione o per l'altra, non si sappia niente mi pare possibile. Più che altro, non so se ci fosse una presenza così massiccia di clandestini in posti come Paganica...
Beh, quello che posso dire adesso, avendo sentito le fonti giuste (non molto tempestivo, me ne rendo conto), è che probabilmente è proprio vero, c'erano un sacco di clandestini a Paganica e in altri posti così e forse sono ancora sotto le macerie, ignorati da ogni statistica...
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