Non si può non scrivere qualcosa su Gaza.
Diamo per scontato l'orrore che tutti proviamo per ogni guerra. Diamo per scontato che non tutte le guerre sono uguali, che ci sono guerre in qualche modo risolutive (la guerra che il mondo combatté contro la Germania nazista, l'Italia fascista e il Giappone teocratico-imperialista, ad esempio, o la guerra del Vietnam, o la guerra d'Algeria) ed altre che non risolvono nulla (questa qui ne è un esempio lampante)
Diamo anche per scontato che non è questa la sede per rifare la storia dello stato d’Israele e dei suoi rapporti con il resto del mondo, dal 1948 ad oggi.
Limitiamoci ad un paio di considerazioni. La prima riguarda la politica interna di Israele. Questa che si sta combattendo è una guerra definita anche da diversi osservatori ebrei come preelettorale. Il 10 febbraio in Israele si vota: il governo vuole incassare quanti più consensi possibili, e questo vale sia per Kadima, il partito di maggioranza in cui militano il presidente Peres (già colonna dei laburisti), il premier Olmert e il ministro degli esteri Tzipi Livni , sia per i laburisti del ministro degli esteri Barak. A novembre un sondaggio dava infatti in testa la destra del Likud. Ad essere in difficoltà sarebbero soprattutto i laburisti, sfidati sia dal centro, sia dalla destra sia anche dalla sinistra (scrittori-intellettuali compresi). Con l'attacco sferrato ad Hamas il Labour spera ora di accreditarsi come un partito, se necessario, "forte", dopo avere sostenuto, in passato, le ragioni della tregua (scaduta appena una settimana prima dell'inizio delle operazioni militari nella striscia di Gaza).
E' evidente comunque che una guerra troppo lunga non gioverebbe all'attuale maggioranza, e che una disfatta come quella del Libano sarebbe fatale per Olmert (nulla di nuovo rispetto a quanto già visto in passato).
Sul piano internazionale, Israele sarebbe penalizzato da un numero, diciamo così, eccessivo di morti (civili, palestinesi) o di "danni collaterali" (scuole Onu comprese); ma è vero anche che Gerusalemme non sembra preoccuparsi eccessivamente delle critiche, soprattutto europee. Parliamo di un paese abituato a difendersi a prescindere dalle simpatie di cui può godere.
Il 20 gennaio - altro elemento di cui tenere conto - a Washington si insedia Obama. Il quale ha già chiarito che Israele ha il diritto di rispondere con la forza alle aggressioni missilistiche di Hamas. Tuttavia, il nuovo presidente americano rappresenta pur sempre una novità per Gerusalemme. In questo senso i vertici di Israele devono essersi rallegrati che la tregua è scaduta e che quegli idioti di Hamas hanno ripreso a tirare i Qassam, così da poter mostrare i muscoli adesso e senza eccessivo imbarazzo.
La cosa più interessante però è probabilmente l’atteggiamento dei paesi arabi circostanti. In difficoltà con le loro popolazioni, chiedono il cessate il fuoco e magari condannano verbalmente Israele, ma di fatto non sono troppo dispiaciuti di quello che sta succedendo. Perché dietro a Hamas (così come agli Hezbollah) c’è l’Iran e l’Iran non piace affatto a egiziani, siriani, sauditi ecc. Lo stesso atteggiamento di Abu Mazen, com'è noto, è stato molto cauto. Può darsi stia pensando agli eventuali vantaggi che la Cisgiordania potrebbe ottenere, "per compensazione", dopo la campagna di Gaza. Anche se francamente Israele non sembra intenzionato a consentire seriamente la nascita di uno stato palestinese, per di più in un territorio che vede ancora la massiccia presenza di colonie.
In tutto questo, dunque, i palestinesi sono due volte vittime, anzi tre. Di Israele, di Hamas e del cinismo (o forse dell’incapacità) dei paesi della Lega araba. Questa guerra non risolverà nulla nei rapporti fra ebrei e palestinesi, all'interno e all'esterno di Israele. Non estirperà Hamas né il terrorismo e non rappresenterà una soluzione per il problema dei problemi che Israele ha di fronte, se vuole conservare la sua identità di stato ebraico, quello demografico. Essa rappresenta l'ennesimo capitolo di una vicenda lunghissima, che appassiona e divide l'opinione pubblica (a differenza di altri conflitti anche più sanguinosi, come quelli che lacerano a fasi alterne la regione dei Grandi Laghi o il Corno d'Africa), ma su cui non si ha molto da aggiungere rispetto a quanto già detto o scritto altre volte in passato in favore della convivenza, della riconciliazione, del diritto ad esistere di due stati (o di un unico stato multireligioso e multietnico sulla terra di Israele/Palestina, senza muri, strisce, colonie e territori).
Nota a margine: può l'Italia fare qualcosa? Può farlo con la cooperazione allo sviluppo, innanzitutto. Questo sempre. Può cercare di alleviare qualche sofferenza, anche se farlo a Gaza è particolarmente difficile, visto l'isolamento della striscia.
Può farlo anche con altri strumenti, ad esempio con l'invio di un contingente di militari con compiti di peace keeping? Direi di sì. In Libano male non si è fatto. Ma ovviamente, per un intervento di interposizione da parte di una forza multinazionale bisogna attendere prima il cessate il fuoco.
Ha senso infine proporre tregue o tentare "affondi" diplomatici come quello azzardato dalla Francia? Ogni sforzo ben impostato che vada in direzione di una cessazione delle ostilità, anche solo parziale, è importante, ma onestamente, l'impressione è che questa offensiva terminerà quando il governo israeliano la riterrà non più utile (sul piano politico prima ancora che militare). E non un secondo prima.
Per una veloce rassegna delle posizioni emerse sul tema nei vari blog italiani, spesso con testimonianze di prima mano da Gaza, vedasi http://netmonitor.blogautore.repubblica.it/?ref=hppro
Foto: l'Exodus, la leggendaria nave che portò, nel 1947, contro il volere dell'Inghilterra, un contingente di ebrei europei nella Terra di Abramo. Uno dei simboli del sionismo.
Nessun commento:
Posta un commento